mercoledì 28 novembre 2007

Meglio la critica o il pubblico?


di Lucio Perca

Che bello vedere le sale teatrali piene in questi tempi grami per la scena italiana in cui molti ma non tutti (per fortuna) parlano di profonda crisi irreversibile. Non dimentichiamo infatti che da tempo, troppo, il teatro subisce il fascino e l’eco del cinema che però, è doveroso dirlo, se non avesse dietro tutto il battage pubblicitario di starlette, ereditiere-attrici, pseudo attori vip e mecenati altolocati vivrebbe sicuramente le stesse sorti di un palcoscenico. Una considerazione nata dall’aver visto negli ultimi tempi le sale milanesi (senza fare nomi per non fare elogi o torti a nessuno) piene di giovani, giovanissimi, cultori della materia, insomma un folto pubblico attento e concentrato alla parola, al gesto, alla ricerca, alla drammaturgia, ai giochi di luce e ai cambiamenti improvvisi che avvengono in diretta davanti e dietro le quinte. Un mucchio di spettatori e di gente che ha avuto modo di avvicinarsi alle meraviglie del palcoscenico anche grazie all’ottima idea della Provincia di Milano di istituire la festa del teatro con biglietti a prezzo ridottissimo e visite guidate, laboratori e senminari annessi. Sicuramente gli appassionati di questo mondo hanno apprezzato, potendo finalmente calarsi più da vicino in una realtà che hanno sempre amato, trascinando così molti neofiti dell’ultima ora che si sono avvicinati al magico mondo del teatro per scherzo o per curiosità, ma che per detta di amici teatranti stanno tornando sul luogo del delitto popolando le sale e le gradinate dove si svolgono i vari spettacoli. Che la gente abbia finalmente capito che i Grandi Fratelli, le Isole Famose e i vari programmi da tv del dolore hanno scocciato ed è ora di tornare a sentire la magia del teatro, il fruscio di una quinta, il caldo di un proiettore, in una parola il Fascino con la s maiuscola del testo recitato. Nell’attesa che questa flebile speranza si manifesti e si concretizzi con dati di fatto certi e concreti, è però doveroso sottolineare l’eterna insoddisfazione dei protagonisti primi di questo mondo, attori e registi in primis, che non fanno altro che lamentarsi della mancanza di critica, uscite sui giornali necessarie solamente per manifestare la propria presenza e il proprio bisogno di apparire ed esistere. Dov’è finito il gusto della narrazione, dell’antica oralità di un vecchio aedo che raccontava per il solo gusto di tramandare e far conoscere al mondo, non alla platea da tutto esaurito e botteghini chiusi? Perché quando gli spettacoli sono belli e vale la pena non perderli si palesano tutti all’orizzonte chiedendo omaggi, accrediti, spacciandosi per critici e cercando qualsivoglia scusa pur di non perdersi l’Evento del momento? Forse perché viviamo nella società del culto dell’immagine in cui sei rock se entri gratis a mostre, spettacoli, eventi e una semplice nullità se non hai accesso a tali privilegi. Ma se poi la vera critica arriva e stronca ecco che il prodotto si sgonfia e tutti a chiedersi il perché e la necessità di tali lavori. Forse molte volte bisognerebbe solo pensare bene a cosa si mette in scena, pensando al messaggio che si vuole far passare e a quello di cui il pubblico, meglio la società, ha bisogno perché il popolo sta riscoprendo la valenza della parola e del testo.

E’ peraltro voglioso di sapere e non si cura se la stessa critica emette la sua sentenza perplessa su uno spettacolo recitato in dialetto siciliano, ma senza sottotitoli. Non siamo così stupidi da fermarci al dialetto, c’è ben oltre e non lamentiamoci poi se i nostri talenti scappano all’estero.�

Libere maschere contemporanee


foto www.sickgirl.it

Da un lato vi è una realtà che intende inforcare la maschera, dall’altro un teatro che sente come urgente la necessità di toglierla. Dalle spaghetti pin-up nel metrò, ai reality e second life: tendenze di teatralità diffusa.


Di Alessio Ramerino

Nel corso del secolo Decimonono il pubblico gremiva le platee non esclusivamente per godere di uno spettacolo lirico o di prosa: una caledoscopica molteplicità di esibizioni si avvicendavano sui palchi delle sale soprattutto minori. Spesso il medium teatrale era usato per esporre in maniera spettacolare le più recenti scoperte della scienza: due elettrodi che generavano una scarica visibile tra loro, esperimenti sulla luce, dimostrazioni di macchine tecnologiche innovative presentate dai loro inventori, ecc., ecc. In un’epoca precedente all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e, contemporaneamente, passiva di una celere rivoluzione industriale e tecnico-scientifica si avvertiva l’esigenza di comunicare alla gente, quanto più direttamente possibile, i risultati delle conquiste del progresso umano. Chiaramente, tali esibizioni poco avevano a che fare con lo sviluppo scientifico vero e proprio, tuttavia alla necessità di un allargamento dell’informazione era fuor di dubbio altresì sotteso un senso particolare per l’esibizione. Nel medesimo filone si inserisce altresì una teoria di spettacoli, al limite tra arte teatrale e arte circense, che presupponevano la rassegna, ad esempio, di gruppi di nani ovvero di gobbi agenti farse o azioni drammatiche.

Lo tsunami creato dallo sclerotizzata crescita di mass media ha privato il mezzo teatrale della funzione comunicativa indirizzata alle masse. Nondimeno, connaturato a certi aspetti dell’umana natura rimane l’attitudine all’ostentazione, anche se ora in essa non è sempre rintracciabile un fine comunicativo né un messaggio da veicolare. L’esempio lampante di tutto ciò è sotto i nostri occhi ogni giorno: reality – veri o creati su copione, ma comunque dotati di un certo grado di credibilità – in cui persone comuni si rivelano nella loro mediata normalità, ristoranti con cucine a vista, dove istrionici cuochi cucinano per la platea degli avventori, persone che vivono in vetrina sotto gli occhi del pubblico astante; senza contare poi le interazioni generate dalla creazione di alter ego virtuali nelle chat-line, in programmi come second life e in videogiochi quali The sims.

Una delle più recenti e esplicite occorrenze di una simile tendenza è da ritrovarsi nel recente spettacolo di lap dance – che avviene con rara ma rilevata cadenza – agito da una ragazza vestita da gatta nei vagoni della metro di Milano. La studentessa gattina dà vita al suo provocante show per poi passare tra passeggeri perturbati e divertiti con il classico bicchierino raccogli obolo. Ella fa parte di un gruppo di giovani donne raccoltesi attorno a una community virtuale, sempre aperta a nuove adepte, chiamata Sickgirls. Le spaghetti pin up (www.sickgirl.it), le cui componenti si definiscono moderne e italianissime pin up che mescolano la delicata sfrontatezza delle donne da copertina dell’America anni Cinquanta con una vena dissacrante in tutto contemporanea. Se la danza in metro si configura come l’esempio più esplicito della volontà provocatoria delle componenti il gruppo, in una breve presentazione versificata delle loro attività all’inizio si legge: “Erotismo teatrale con un pizzico di ironia!”. Un tale manifesto si esplicita in servizi fotografici, recensioni, articoli, racconti inediti e tutta un’altra serie di materiale in accordo con la linea editoriale del sito pubblicato sul web. Tuttavia, quello che a noi preme in questa sede è cercare di reperire una certa liceità dell’utilizzo del termine teatrale.

Innanzi tutto e da rilevare come privando un’esibizione di un messaggio da trasfondere essa diventi esibizione pura o, meglio, “esibizionismo”, sciolto dai vincoli propri del medium teatrale. Nel caso in esame, tuttavia, ci troviamo di fronte a una volontà provocatoria e quindi portatrice di significato. In più, nel particolare vi è anche la necessità comunicativa di esporsi davanti a un pubblico tangibile, mediando il proprio essere attraverso l’appartenenza a un gruppo, attraverso un codice espressivo di cui, a priori, sono state assegnate precise coordinate comportamentali.

Più volte abbiamo utilizzato l’aggettivo “mediato” in questo scritto, tuttavia, dato l’ambito teatrologico a cui le nostre riflessioni afferiscono, sarebbe più consono utilizzare il termine “maschera”. Cifra di qualsivoglia tipo di esibizione veicolante un messaggio, l’utilizzo di una maschera, sia essa reale o immaginaria, diviene sovente la chiave interpretativa del messaggio stesso, ponendosi rispetto ad esso in rapporto metaforico. Vieppiù, la maschera permette di assumere una sorta di identità altra immune dalle critiche personali, di sentirsi protetti qualora si voglia sciogliere i freni dell’inibizione, di rivestire un ruolo in tutto e per tutto teatrale e rappresentativo, di agire una parte anziché viverla.

Abbisogna ora condurre l’analisi relativa all’altra faccia della medaglia. Più volte in alcune mie ricerche di ambito spettacolistico contemporaneo mi sono trovato di fronte a poetiche teatrali tese a riportare sul palco la confessione non più del personaggio bensì dell’attore, unita all’esibizione del corpo nudo e di scioccanti particolari, compresi sudore e altri fluidi organici (Si veda a tale riguardo un articolo firmato da Renato Palazzi e apparso sul Il sole 24 ore del 5 marzo 2006, in cui il critico commenta le tendenze spettacolistiche giunte alla Biennale Teatro). Tale modalità rappresentativa pare tesa al volere rintracciare una nuova cifra ontologica dell’evento live, “dal vivo”. Naturaliter, tutto ciò che avviene su di un palcoscenico deve fare i conti con il tramite insito nel mezzo teatrale in senso comunicativo e, dunque, rinunciare a un più o meno rilevabile quid di realtà e assumere forzatamente le caratteristiche di trasmissione mediata.

In conclusione, da un lato vi è una realtà che intende inforcare la maschera, dall’altro un teatro che sente come urgente la necessità di toglierla. Impossibile stabilire, a meno che non lo si faccia con psicologia e antropologia da quattro soldi, se la provenienza delle tendenze rilevate sia da considerarsi figlia di un’inconscia riflessione parallela ovvero se si tratti di pura casualità; più certo parrebbe asserire che la ricerca di una verità sempre più reale da parte di alcune poetiche rappresentative sia una reazione all’invasione della realtà nell’ambito comunicazione di massa, realtà fittizia ma creata e recepita come autentica. A noi non spetta giudicare, il nostro compito è limitato all’osservare e al registrare tendenze come quelle sopra descritte, per ora prive della distanza critica necessaria a una loro categorizzazione.


SUCCESSO EMMA DANTE


di Elisa Ferrari

In questi giorni il palcoscenico del Crt si vede ‘invaso’ dalle performance degli attori della compagnia Sud Costa Occidentale diretta da Emma Dante.

In apertura di rassegna ‘Mishelle di Sant’Oliva’, pièce per un padre e un/a figlio/a che indaga il difficile rapporto tra due esseri umani legati visceralmente nel ricordo di un' amante/madre/ballerina.

Poi ‘Carnezzeria’, vincolo di sangue tra fratelli che per riconquistare l’onore nascondono un rito drammatico sotto la superficie gioiosa di un evento festivo. E ancora ‘La Scimia’, poi ‘mPalermu’ e ‘Vita mia’ in chiusura. Quasi tutto il teatro della Dante che, sottoforma di intima poesia, scandaglia le tematiche più dure di una sicilianità antica e radicata.

La regista omaggia il suo pubblico proponendo gli spettacoli che l’hanno accompagnata lungo tutto il suo percorso artistico, spettacoli che l’hanno fatta crescere portandole conferme importanti, anche attraverso i vari premi ricevuti quali ‘Premio Scenario 2001’ con ‘mPalermu’ e ‘Premio Ubu’ 2002 e 2003 rispettivamente con ‘mPalermu’ e ‘Carnezzeria’.

A sua volta il Crt omaggia la giovane creatrice ospitandola in questa originale iniziativa che diventa importante luogo di scambio.

Proprio al Teatro Dell’Arte Emma Dante debuttò otto anni fa con 'mPalermu', quando aveva già alle spalle una solida carriera di attrice ed alcuni spettacoli da lei creati e diretti, ma non si era ancora affermata pienamente in qualità di regista. Il Crt ha contribuito alla sua affermazione artistica e la risonanza che questo nome e questi spettacoli stanno avendo in Italia e all’estero lo dimostrano.

Si, oltre l’Italia. Al di là delle Alpi ci sono ‘pubblici’ che amano gustare gli spettacoli della drammaturga siciliana.

Tra maggio e giugno la compagnia ha debuttato al Rond Point di Parigi, uno dei teatri più in voga della città bohémien nel quale si rifugia un pubblico curioso ed ‘alternativo’. Per ben sei settimane gli attori di Sud Costa Occidentale hanno calcato le scene del prestigioso teatro portando alla ribalta ‘Mishelle di Sant’Oliva’ e ‘Vita mia’. Quest’ultimo ha fatto letteralmente innamorare il direttore Michel Ribes, secondo il quale Emma Dante riesce ad analizzare i nodi più profondi dei rapporti umani affrontando temi delicati ma assolutamente attuali quali la morte e la transessualità con estrema freschezza; un linguaggio molto vicino alla sua idea di teatro, probabilmente un ‘linguaggio universale’ che non necessita di una traduzione in lingua dei testi, ma di una semplice sottotitolatura.

Il dialetto siciliano rimane integro, il messaggio arriva comunque, supportato dal linguaggio del corpo e da una cantilena che, come un mantra, assorbe l’attenzione del pubblico d’oltralpe.

Altro traguardo dell’anno 2007 è stato per Emma Dante e i ragazzi della sua compagnia il Festival di Liège in Belgio diretto da Jean Louis Colinet, che dirige anche il Théâtre National di Bruxelles. Questo festival, che si tiene ogni due anni, si pone l’obiettivo di diffondere le arti performative contemporanee.

In realtà gli artisti siciliani erano già stati ospiti nel 2005 con ‘La Scimia’, spettacolo che riflette sul significato della religione in una società forse troppo tradizionalista. Quest’anno il festival ha proposto al suo pubblico ‘Cani di bancata’ , uno spettacolo tra i più complessi per la densità e la quantità di segni e sottolinguaggi scenici. Il pubblico ha reagito positivamente. Perché? Perchè in ogni caso si tratta di un teatro che regge su temi universali e profondi. Un teatro, quello della Dante, privo di sfarzi e di eccessi, dunque. Un teatro intimo che, quasi come dentro una filastrocca, porta in scena l’essere umano in tutta la sua frustrazione e la sua fragilità. Un teatro pieno di folklore che, come uno specchio, riflette l’animo di chi sta osservando dalla platea. Questa è probabilmente la forza di un teatro che comunica universalmente.

mercoledì 21 novembre 2007

I luoghi hanno proprietà magiche

di Laura Calebasso

Il filosofo francese Denis Guénoun, ospitato l’anno scorso al CRT, si è spesso interessato al teatro in quanto luogo di incontro protopolitico, intendendo che l’unica genuina fonte del potere coincida con il corpo sociale, e che ogni incontro pubblico di esseri umani con altri esseri umani, contenga un forte potenziale di autodeterminazione.
Questo assunto porta almeno due tipi di conseguenze: in primis, i momenti improduttivi dedicati all’aggregazione risultano fondanti della dignità umana. In secondo luogo la possibilità di rispondere del destino comune dipende dalla qualità dell’incontro. Prescindendo qui dal fattore delle circostanze storiche, che richiederebbero un’analisi a sé stante, questa qualità dell’incontro non manca di essere esaminata seriamente da Guénoun il quale, ad esempio in Exibition des mots valuta l’impatto con cui l’architettura, la collocazione urbanistica ed altri “dettagli”- incidono sul modo di stare insieme in un luogo.
Abbiamo dunque stabilito che lo scambio passa attraverso diversi strati di materia: corpo, corpo di corpi, e la struttura che gli accoglie. Arrivati a questo punto immaginiamo di togliere la caratterizzazione fisica degli ambienti e degli attori sociali. Ci troviamo in uno spazio potenzialmente illimitato, un universo attraverso il quale proiettare il mondo reale insieme alle nostre fantasie. Abbiamo buttato via le nostre ingombranti enciclopedie perché con un click tutto il sapere prodotto dall’umanità è disponibile in rete; possiamo anche fare la spesa, incontrare i nostri amici, possiamo innamorarci, partecipare a forum su quasi ogni argomento. Non da ultimo possiamo dare atto a vere e proprie azioni politiche: su questo punto delicato torniamo a confrontarci con la questione protopolitica di Guénoun.
Ciò che è politico si colloca su di un livello di intellettualizzazione posteriore rispetto alla semplice aggregazione, per questo il suo lancio in uno spazio fatto di codici binari ed impulsi elettrici, simili a quelli del cervello, si compie con successo; è invece difficile pensare di esaurire la “materia prima” della politica, dell’arte, e di tutto quanto fonda il tessuto di una civiltà- nel quadro di una struttura esclusivamente neurologica.
Entrando in uno spazio senza luogo, è consentito depositare come un cappotto, la propria identità in un guardaroba immaginario, dove è possibile indossare con disinvoltura (nella discrezione che solo una perfetta solitudine garantisce) qualità inconfessabili o maschere funzionali a raggiungere determinati obiettivi. Pensiamo ad esempio agli infiltrati, che frequentano una o più chat room allo scopo raggiungere finalità oscure agli altri membri, ad esempio per acquisire informazioni. Da un lato vediamo chi approfitta dell’anonimato per lasciarsi andare, magari facendo emergere versanti insospettabili del proprio stare al mondo; dall’altro chi svolge il mestiere della spia, è infinitamente rilassato e al sicuro dal proprio corpo: sappiamo quanto banale sia mentire e quanto, invece, sia complesso essere credibili. Il corpo è qui, la stessa espressione l’abbiamo portata a scuola e al supermercato, ovunque sempre la stessa faccia. Il corpo che suda, rabbrividisce, un sorriso che non si contiene ed il gioco è rotto. Il corpo garantisce della sincerità di ogni singola performance di sé stessi.
La non-architettura della città sotterranea consente ciò che la verità ostacola, incontrarsi senza che nessuno sia presente permette di studiare il colore del negativo, per dipingere un ritratto profondamente espressivo di ciò che siamo e che non siamo. La realtà incrocia la fantasia, la creatività sociale amplia le sue possibilità fuori dai limiti imposti dalla materia dei corpi e del cemento e si tuffa nel grande sogno collettivo. Potremo risparmiare agli dei la fatica di incarnarsi in un assemblea riunita, e più semplicemente al teatro di lasciare il passo ad una grande rappresentazione spontanea, alla quale ognuno partecipa senza esporsi. Resta da chiederci se si stia parlando finalmente dell’Eden o del paese dei balocchi…

Il pubblico questo sconosciuto

di Elisa Ferrari

Nel corso della storia il pubblico è stato un essere metamorfico. In passato lo caratterizzava una certa consapevolezza sia riguardo al fatto di possedere un ruolo, sia a come questo ruolo doveva essere esercitato. Nell’antica Grecia l’atteggiamento era di carattere politico. Nel medioevo sfociava in un sentire religioso. Dall’800 questa partecipazione ‘attiva’ subisce una battuta d’arresto; il teatro si trasforma in puro intrattenimento, del tutto autoreferenziale. Il ruolo del pubblico non è bene identificato, forse non c’è.
Arriva il ‘900.
Nella definizione di ‘teatro della crudeltà’ Artaud rifiuta l’idea di arte come imitazione della realtà, sostenendo che l’arte sia la vita stessa.
Vengono così scardinati i ruoli e gli obblighi della teatralità classica.
Lo spettatore non si identifica più come fruitore passivo; lo spettacolo non è più oggetto di quello stesso sguardo passivo. Lo spettacolo è un vortice che inghiotte lo spettatore. Subentra il concetto di festa: teatranti e collettività divengono comunità in una sorta di rito di purificazione, o forse di contagio.
Nel rito del teatro ogni individuo partecipa empaticamente alla festa, senza distinzione di ruoli.
Se si parte dal presupposto che il teatro esplora la condizione umana, è uno squarcio, una finestra sul mondo contemporaneo che propone una visione globale e critica sulle condizioni della società, che visione ha del mondo lo spettatore d’oggi?
Qual è oggi il ruolo che appartiene al pubblico?
Il pubblico ha un ruolo?
Dopo Artaud, dopo Piscator, dopo le avanguardie, si ha l’impressione di aver subito una regressione di un paio di secoli.
Dentro la scatola teatrale lo spettatore è ‘asettico’, automizzato. Guarda (o forse vede). Applaude. Partecipa? E’ emotivamente coinvolto?
Forse si è persa la libertà del giudizio. Il pubblico subisce. Ci si lascia ‘torturare’ da spettacoli che offendono la dignità dell’osservatore. Non si prendono posizioni. Si rimane nell’anonimato dell’applauso ad ogni costo sino all’accensione delle luci. Perché?
Forse per paura di non sentirsi più parte di un gruppo, che in ogni modo ha fatto una scelta importante e vale a dire quella di andare a teatro?
Il pubblico si sta disabituando a ciò che accade.
Lo spettacolo a volte si riduce ad un semplice esporsi ad uno sguardo non pronto ad accogliere.
Se gli artisti non hanno nulla da dire, se la messinscena diventa mera esibizione del sé, se il pubblico partecipa solo fisicamente all’evento, se il corpo dello spettatore abbandonato sulla sedia diventa bersaglio che non reagisce ai colpi sparati a salve poiché non esistono colpi reali data l’assenza di messaggio, dopo tutti i ‘se’ dov’è il teatro? Dov’è lo scambio? Dov’è la comunicazione?
Se i partecipanti rifiutano il proprio ruolo, dov’è la festa?
Probabilmente il senso di comunità e, di conseguenza, il senso del teatro sono palpabili in luoghi non prettamente deputati al teatro stesso. Come diceva Artaud "l’arte è vita" e forse il teatro ha scelto di vivere per le strade di una città anonima ma viva.

Riflessioni sulla brevità

di Serena Mola

Short Formats. Sei serate, dodici spettacoli, quattrocento minuti scarsi. Perchè?
Ogni spettacolo, si desume con un facile calcolo, rivela la propria breve durata: una mezz’ora circa. Gli interventi artistici, talora presentati nella loro concezione originaria, altre volte appositamente “tagliati” si sono caratterizzati quindi per una scarsa dilatazione temporale, che sovente ha fatto da contraltare ad una criptica densità concettuale.
La brevità è d’altronde programmaticamente annunciata dal duplice titolo della rassegna, che ad una esplicita e preliminare indicazione di “genere”, Short format, aggiunge un (sovra) titolo emblematico: Intermittenze danza.
Oltre che una sempre più acclimatata tendenza della “creatività performativa contemporanea” l’accorciamento dei tempi è forse uno dei tratti più tipici della modernità in senso lato, in particolare nell’accezione metropolitana del termine.
Ed è interessante, alla luce di queste premesse, avvicinare i due ambiti appena accennati, e provare a leggere il formato breve (in questo caso di spettacoli di danza) come erede di alcune esperienze letterarie fondamentali del nostro tempo, cercando di compiere un viaggio attraverso quattro momenti, quattro tappe del pensiero occidentale che, inconsapevolmente ci hanno segnato e che forse, rilette in quest’ottica ci sveleranno qualcosa delle dodici brevi messe in scena.
1857, Parigi. Uscita delle Fleurs du mal. La modernità irrompe nella letteratura, anzi l’impatto è ancora più forte, nella poesia, nel sonetto che implode sotto i colpi di contenuti sensuali e scandalosi, ma profondamente umani.
1955, Germania. Walter Benjamin, nei suoi scritti dedicati a Baudelaire, cerca di dare conto di un fondamentale stravolgimento antropologico, di cui il poeta maledetto per eccellenza è l’indiscusso iniziatore. Benjamin chiama Choc l’esperienza istantanea, che, proprio come (e non a caso) un’intermittenza, guida l’uomo nella metropoli: sguardi fuggitivi, ritmi frenetici, urti indelicati e improvvisi.

1909-1922, Francia. Marcel Proust rinviene tracce del Tempo perduto grazie alle Intermittenze del cuore, lampi in cui sensazioni dettagli, immagini di un passato che si credeva cancellato riemergono fulmineamente con forza straordinaria.
1950-1979, Italia/Francia. Italo Calvino pubblica numerosi scritti, romanzeschi e saggistici: dalle tre allegorie dell’uomo moderno, unite nella Trilogia degli antenati, a Marcolvaldo, dalle Città invisibili fino alle Lezioni americane. In questi testi, in modo diverso il principale tema è proprio quello della modernità, e del suo impatto sull’uomo, che ne esce dimidiato, svuotato, alienato…
Il fil rouge che collega tutte queste esperienze è proprio la brusca rottura esperienziale a cui dà luogo l’avvento della modernità industriale, urbana, o, se si vuole, metropolitana. La città diviene quindi un vero palco scenico, su cui l’uomo esibisce inconsapevolmente se stesso nella sua quotidianità stravolta.
Ciò che è rilevante sottolineare ai fini del nostro discorso è che questo sconvolgimento antropologico colpisce soprattutto una dimensione, quella temporale. I tempi della città sono rapidi, incalzanti, perpetuamente ritardatari e affannati, ansiosi e concitati. Orari, impegni e scadenze rischiano di robotizzare le giornate dell’uomo metropolitano, di appiattire la dimensione della quotidianità in una routine uguale a se stessa, scandita dai ritmi della catena di montaggio.
Calvino non si lascia impressionare da questo rischio, anzi, trova l’antidoto letterario per combatterlo: la Brevità. I tempi della letteratura che, ricordiamo è prerogativa irrinunciabile dell’animo umano, si fanno così conformi alla variazione paradigmatica allora in corso, e ora assestata. Calvino cioè pubblica testi brevi per andare incontro ad un lettore che, curioso e interessato, ha però meno tempo dei suoi “colleghi ottocenteschi”.
Estendendo il discorso letterario all’ambito teatrale prende forma una delle strade che ci consentono di capire il perché di Short formats: il lavoro scenico, accorciandosi, facendosi Intermittente, si rende compatibile con nuovi ritmi di vita.
Ecco allora il perché di sei serate, dodici spettacoli, quattrocento minuti scarsi.