mercoledì 28 maggio 2008

'NZULARCHIA, IL VOLTO INQUIETO E SURREALE DELLA CAMORRA

Dal 27 maggio al Teatro dell'Arte il premiato spettacolo di Borrelli e Cerciello


‘Nzularchia è un’espressione che sta per itterizia, ittero, febbre gialla, ma il suo significato è riconducibile anche alla paura che, quando è particolarmente violenta, pare possa provocare queste malattie.

In una notte tempestosa, Spennacore - un camorrista costretto da anni a stare rinchiuso in quattro mura - si aggira irrequieto nelle stanze della sua casa-prigione. La sua presenza si avverte soltanto per il suono dei passi che produce e per la voce che a tratti risuona minacciosa, insieme alla furia della pioggia e del vento.

In un altro “luogo” della dimora – che fin dalle prime battute si configura come inquietante spazio della memoria rimossa - sono rintanati Gaetano, un uomo di circa trent’anni, e Piccerillo, figlio, fratellino, amico, o semplicemente personificazione del ricordo, di un’infanzia brutalizzata e, forse, mai vissuta.

Ed è proprio l’incessante confronto fra Gaetano e Piccerillo ad innescare un doloroso e travolgente processo di ricostruzione della memoria: un viaggio psicoanalitico in un ambiente surreale, capace di materializzare fantasmi del passato e di rimettere insieme i brandelli di un’esistenza straziata dall'incubo indelebile di una tragedia, che non lascia possibilità di salvezza.

Gaetano, infatti, sente di dover vendicare immani sopraffazioni, di doversi liberare di un padre geloso e assassino, che l’ha privato dell’amore materno e di un fratello mai nato, ma soprattutto, deve guarire dalla “febbre” di paura, inoculatagli dal genitore con spaventose iniziazioni, violenze fisiche e psicologiche, che trovano nell’acqua - quella del mare come quella dei rovesci temporaleschi che imperversano all’esterno - un motivo ricorrente.

Come in un giallo, lo scioglimento arriva, in tutta la sua drammaticità, soltanto nel finale, quando il velo dell’oblio – spaventosamente - si squarcia, per condurre a un tragico e, fatalmente mortale, epilogo.

OLOFONIA E VIDEORICERCA

La troupe del Crit, Centro Ricerca e Innovazione Tecnologica della Rai, guidata dal dott. Scopece, ha sperimentato al Salone, nel quadro di un accordo con il Crt, il microfono olofonico, che permetterà rivoluzionari rapporti tra teatro e video. La sperimentazione ha avuto luogo durante le prove de La licenza, di Claudio Autelli, e ha impiegato una videocamera Sony HD, per una particolare definizione dell'immagine, e soprattutto il microfono olofonico, un microfono "panoramico" in grado di cogliere la profondità di tutti i suoni provenienti da un ambiente. Tale strumento potrebbe rivoluzionare i rapporti controversi tra video e teatro, in quanto risulta capace di riprodurre con realismo l'atmosfera live di una sala teatrale. Riportiamo in seguito un esauriente articolo del Dott. Scopece, tratto dalla rivista Elettronica e telecomunicazioni, n. 2 agosto 2007, dal sito del CRIT, www.crit.rai.it.

Olofonia, una ripresa sonora di tutto ciò che ci circonda di Leonardo Scopece da Elettronica e telecomunicazioni, n. 2 agosto 2007

L'EUROPA DEI TEATRI

di Sisto Dalla Palma (testo raccolto da Ida Senoner)

Quando penso all'Europa penso a un sogno mancato, un orizzonte dove non riusciamo ad arrivare ad un reale coinvolgimento, come se l’Italia fosse un “enclave” separata e distinta dal resto dell’Europa. Del resto anche in Europa, alcune scelte di fondo diventano competenza delle grandi burocrazie. Io credo, per non essere astratto o genericamente negativo su questo assetto, che il punto di riferimento che dobbiamo avere in mente è quello di un paese dove il teatro conta veramente e dove il teatro si fa, si fa in misura nuova, forte onnipervasiva nella società con la capacità di aderire realmente ai bisogni. Mi pare che questo sia tutto sommato il modello anglosassone in cui sempre e storicamente si é cercato di mettere un muro fra la politica e la cultura e di garantire l’autonomia della cultura e del teatro.

Attraverso il circuito internazionale noi abbiamo immesso i momenti più significativi della nostra produzione, in particolare quella di Emma Dante, da “Carnezzeria” a “Cani di Bancata” alla “Scimia” che ha girato in Francia, in Spagna, in Olanda ma anche nell’America del Sud. In ogni caso mi pare che i collegamenti internazionali dimostrano non solo che ci sono spazi all’estero di tutta consistenza, ma che in alcuni casi è più facile stare all’estero, fuori delle combinazioni delle logiche degli scambi e muovendosi in una prospettiva di assoluta autonomia delle opzioni culturali ed artistiche dei vari direttori

Tutte le nostre produzioni (e sto parlando di un numero che sta fra i sette, otto-nove, nell’arco di due anni), sono tutte drammaturgie contemporanee. Questo é un elemento di classificazione un po’ estrinseco. Direi che siamo meno interessati all’autonomia del testo, della letteratura drammatica e più a lavori teatrali che siano espressione di una drammaturgia di gruppo e di un ensemble. Questo per esempio nel caso di Emma Dante, mi pare che risulti con assoluta evidenza. Ma oltre a Emma Dante noi abbiamo presentato Autelli, abbiamo presentato Facchetti, abbiamo lavorato con Mimmo Sorrentino, il quale è stato presente non con un testo generico, ma sviluppando una drammaturgia collettiva muovendo dalle scuole dei problemi reali dei ragazzi. E questo è un discorso che dovrebbe essere preso in considerazione, perché supera la vecchia logica dell’autore chiuso nella sua vecchia torre d’avorio, nella sua officina letteraria per predisporre i testi, ma si muove piuttosto in una direzione di una rete di rapporti di relazioni in cui il territorio fornisce alla drammaturgia e al teatro dei vissuti su cui lavorare e trasformare e portare a rappresentazione.

A sua volta il teatro è in grado di irrompere nel territorio, restituendo emozioni, vissuti, valori, attese, problemi che il territorio, la scuola abbiano l’animo di manifestare. Da questo punto di vista noi stiamo proprio lavorando su un progetto di formazione per attori, artisti nel campo del teatro sociale che siano in grado di intercettare questi vissuti e che si mettano nella prospettiva del lavoro di gruppo e del teatro sociale.

Ma quello che è possibile è costruire un soggetto di scrittura collettiva capace di raccordarsi immediatamente alle realtà di base.

ART IT'S HEAVY...?

di Laura Calebasso

In un mondo dove tutto è performance e la performance è tutto, è così difficile districare il pieno dal vuoto, il finto dal vero… la pubblicità scende dai cartelloni e ci interpella, per farci ridere, riflettere, talvolta supera sé stessa. Eppure succede di sentirsi come foglie secche, senza speranza di riacquisire spessore; ci rassegnamo a increspare una risata amara sulle sorti politiche, sociali e culturali del nostro essere umani.

La vicenda di Pippa Bacca e Silvia Moro è un calcio sferrato alla rassegnazione, e allo stesso tempo una rivoltella alle tempie dell’ottimismo. Una possibilità di riscatto, un sussulto e poi un gemito, forse.

Due artiste indossano abiti da sposa, e curando nel dettaglio la mediatizzazione dell’evento partono per un viaggio in autostop attraverso i Balcani, recentemente martoriati da conflitti cruenti, per poi raggiungere la Palestina. Un pazzia “una cosa un po’ da ragazzine” dice la zia, intervistata dopo la scomparsa di Pippa Bacca. Si, perché nonostante di performance mediatizzata si trattasse, di trucchi non ce n’era; il che è incompatibile con la nostra fantasia nutrita a reality. Le frasi trasognate sulla fiducia dell’uomo nell’uomo, ora ghiacciano persino gli occhi con cui le si legge.

Finalmente tutti potranno dare sfogo al disfattismo che, sempre uguale a sé stesso, inghiottisce ogni residuo di vita sul suo passaggio. Torneremo al tepore di un quotidiano senza senso, del quale continueremo a lamentarci senza fine, soddisfatti della nostra eterna insoddisfazione…

Un mare di squallore nel quale una performance disarmante e incredibile, intollerabilmente vera, esagerata e “inversamente proporzionale” ai canoni del nostro non-essere, emerge come una boa rossa di salvezza.

Voyeurismo tattile: riflessioni intorno allo sguardo che tocca, a partire da Voyeurismo tattile, un’estetica dei valori tattili e visivi di Maddalena

di Alessia Gennari

Voyeurismo tattile, ossia, quando lo sguardo impalpabile perde la sua dimensione immateriale e si fa tocco, contatto, coinvolgimento e piena compenetrazione. Quando la fruizione cessa di essere una distanziata “visione” e diventa un palpeggiamento spinto ai limiti del lecito. Quando l’arte si lascia penetrare e “tocca”, attraverso gli occhi, ogni fibra del corpo di colui che osserva.

Il “voyeurismo tattile” come categoria della fruizione artistica contemporanea è la tesi esposta da Maddalena Mazzocut- Mis nel suo saggio Voyeurismo tattile, un’estetica dei valori tattili e visivi, pubblicato da Il Melangolo nel 2002. In esso, l’autrice compie un percorso attraverso l’arte contemporanea, in particolare di tipo “performativo”, alla ricerca di una risposta alla domanda se si possa ancora o meno parlare di arte, nel nostro tempo. La risposta, scontata, è che l’arte è certo ancora viva e che ciò che è mutato non è tanto (o soltanto) il paradigma estetico, quanto quello fruitivo.

La riflessione dell’autrice si avvale di un apparato teorico importante, che fa riferimento all’estetica, in particolare settecentesca, e alle teorie relative alle relazioni intercorrenti tra i due sensi messi in gioco: tatto e vista. Prima tappa, la disamina della nota questione sollevata da William Molyneux nel 1693, che aprì uno dei maggiori dibattiti della storia della filosofia (ancora oggi irrisolto): un cieco che abbia appreso a distinguere, servendosi del tatto, una sfera dal cubo, potrà, una volta risanato, distinguere le due forme avvalendosi della sola vista? Sono vista e tatto, dunque, organi complementari o ciascuno di essi agisce sopraffacendo le capacità cognitive dell’altro? Se per il cieco si può parlare, infatti, di una dittatura del tatto che, nei casi di guarigione dalla cecità, rende spesso difficile, se non impossibile, l’adattamento al funzionamento del senso della vista, nel mondo dei vedenti esiste viceversa un predominio della vista sugli altri sensi, prossimi piuttosto alla fisicità e dunque posti nel gradino più basso della gerarchia. E se la vista dialoga con la bellezza, anzi, ne è il senso preposto, al tatto è piuttosto affidata la gestione dei rapporti con il disgustoso, una sensazione ben più fisica che speculativa.

L’arte contemporanea arriva a questo punto a riscattare il tatto. Trionfano i corpi con la loro nudità, le loro sezioni esibite, i loro liquidi (sangue, lacrime, sperma, sudore), i loro miasmi, sensazioni, dolori, orrori. Trionfa la fisicità (intesa come volume, peso, dimensione) e trionfa una fruizione della vicinanza (quella del tocco), a discapito della lontananza imposta dallo sguardo. Al tatto viene restituita dignità cognitiva e non solo: più autentico della vista fallace, solo attraverso il tatto si coglie la veridicità della realtà fisica. Non che l’arte contemporanea sia da toccare, invece che da vedere. È la vista, piuttosto, a inglobare in se le peculiarità della fruizione tattile: la vicinanza, il contatto e, soprattutto, la parzialità.

La fruizione dell’arte contemporanea è infatti una fruizione “nel dettaglio”: si osservano parti, particolari, settori, lo sguardo agisce come una mano che sonda in progressione le superfici senza poterne cogliere l’interezza. Una visione dettagliata, dunque, che indugia sul particolare scabroso, in maniera voyeuristica: la morbosità non è solo legittimata, ma addirittura richiesta, la sfera del privato e dell’intimo entrano prepotentemente nell’occhio dello spettatore, che non può far altro che toccare, non già “con mano”, ma piuttosto “con occhio”, l’oggetto vivisezionato davanti ai suoi occhi. E proprio in tale “parcellizzazione” sta il segreto della fruizione: possiamo sopportare certe espressioni dell’arte contemporanea, le più estreme e dolorose, solo perché le affrontiamo “a tentoni”, tastando qua e là con lo sguardo e sperimentando singolarmente sensi, emozioni, passioni.

Diverso dalla semplice modalità tattile, che pure va riscattata e va riconsiderata nel suo ruolo di “parente povera della vista”, diverso anche dalla semplice modalità aptica, il tattile-voyeuristico coniuga il palpare con l’occhio , la modalità di fruizione progressiva e parcellizzata, con un atteggiamento di partecipazione differenziata dei sensi, con un coinvolgimento fisiologico che viene richiesto dalla stessa rappresentazione.1

Per un’arte da toccare con gli occhi.

1 Mazzocut- Mis, M., Voyeurismo tattile, un’estetica dei valori tattili e visivi, Il Melangolo, Genova 2002.

Lo sguardo: definizione, sinonimi, contrari


di Serena Mola

Scrivere sullo sguardo nell’era dell’immagine, mistificata e mortificata, abusata e scontata, vista e subito dimenticata non è cosa facile, anzi ardua e potenzialmente poco fruttuosa, in quanto puntellata in ogni dove da insidie moralistiche, da sottese trappole banalizzanti e quant’altro. Proprio per questo, programmaticamente si vuole qui proporre un “Non ci sono più le mezze stagioni” calato proprio sul tema dello sguardo, un “si stava meglio quando si stava peggio” che fa tesoro di alcune tra le più importanti esperienze letterarie ed artistiche dal Medioevo ad oggi: tutto questo col solo scopo di rinfrescare un po’ la memoria e perché no, di allontanarsi dalle immagini patinate o insanguinate da cui già siamo oberati, lo si voglia o no.

Il gioco è semplice, basta aprire il vocabolario, anzi i vocabolari e lasciarsi trasportare dal potere evocativo che, strano ma vero, anche le asettiche definizioni lemmatiche e i suggerimenti sinonimici recano in sé a chi solo sappia, non a caso, guardare oltre la classificazione enciclopedica, la tassonomia grammaticale, la rigida distribuzione alfabetica.

Si aprono così quattro strade legate all’esplorazione verbale che si fa subito retrospezione storica, culturale e letteraria.

La primissima definizione parla di sguardo come di Atto del guardare: interessante l’impiego della parola Atto, che imprime a questa abitudine ormai automatica e inconsapevole un carico di intenzionalità. La pratica dell’osservazione viene così risarcita e nobilitata, quasi a rendere omaggio, secoli e secoli dopo, ad un’ epoca in cui lo sguardo era una tra le manifestazioni relazionali più ambite e più preziose, se non la più preziosa. Lo Stilnovo. Guinizzelli scriveva, a metà ‘200, Lo vostro bel saluto e’l gentil sguardo: gli occhi in questione erano ovviamente quelli della donna amata, che se solo rivolti al poeta lo conquistavano, infliggendogli dolorose pene d’amore, rendendolo schiavo della donna (non dimentichiamo, domina).

La stessa preziosità e, declinata diversamente, la stessa drammaticità torneranno sei secoli dopo, non si è più a Bologna ma nella Parigi appena consacrata a metropoli. L’io lirico questa volta è Charles Baudelaire, la donna ugualmente sconosciuta, è una passante, un atomo della folla. Da questa la fascinosa presenza femminile emerge per il tempo di un amore non al primo -come lo era stato quello guinizelliano- ma all’ultimo sguardo, e da cui, un istante dopo, è anonimamente reinghiottita. Il potere dello sguardo è però identico, è un incantesimo istantaneo che dà, e nel medesimo momento toglie la vita all’innamorato: dans un oeil…la douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Oltre alla preziosità, quindi, in questo primo excursus non si può trascurare un’altra caratteristica dello sguardo, che, in effetti, è suggerita dalla seconda definizione del dizionario, la fulmineità. Al n. 2 si legge infatti: occhiata, a prima vista, subito.

Se invece si passa al n. 3, il panorama cambia completamente, in quanto la definizione recita: occhiata che esprime uno stato d’animo. La componente emotiva appena annunciata ci allontana dal sentimento amoroso, già ampiamente vagliato, e ci conduce invece verso due esperienze lontane, cronologicamente e culturalmente, ma animate dalla stessa tensione intellettuale, dalla stessa forza poetica, immaginifica e creativa: da un lato evochiamo lo sguardo del Don Chisciotte, che ha il potere di trasfigurare la realtà che lo circonda, di vedere nei mulini a vento avversari valorosi da combattere e in una massaia qualunque la principesca Dulcinea, dall’altro uno sguardo castrato, impedito, quello del Leopardi costretto dietro la siepe. Nel primo caso la vista è immaginata, nel secondo solo immaginabile, ma in entrambi è come, e più, che se fosse vera.

La terza tappa, dettata questa volta dal ricorso alla sinonimia, ci fa pensare alla degenerazione voyeuristica e morbosa dello sguardo, in riferimento ai suggerimenti: guardata, sbirciata. A questo proposito gli esempi (in prima istanza televisivi), molto meno nobili dei precedenti si potrebbero davvero sprecare, invece vogliamo citare Étant donnés, un’opera di Marcel Duchamp costituita solo apparentemente da una portone in legno ma che, invece, è stata definita “un apparecchio per sbirciare immagini”. Da due forellini si osserva infatti un vano, che a sua volta fa da appendice ad un'altra stanza con una specie di finestra. Al di là dell'apertura del muro, distesa su un mucchio di ramoscelli, si intravede una donna nuda, che regge con un braccio una piccola lampada a gas accesa, mentre sullo sfondo illuminato da una luce fioca, si delinea una visione esatta e reale di un suggestivo paesaggio naturalistico.

Infine i contrari; anche se il dizionario in questo caso non dà alcuna indicazione, si può comunque pensare l’opposto dello sguardo come cecità, e dedicare queste ultime parole alla cecità mitica di Tiresia. Egli infatti la ricevette come sorta di pena di contrappasso proprio per essersi concesso un diletto voyeuristico. A tale punizione però venne accordata una sorta di attenuante, o aggravante secondo i punti di vista: persa la vista “sensoriale”, acquisitò quella profetica, oracolare.

Si dice che il gioco è bello quando è corto, quindi lo smettiamo prima che stufi: le definizioni del dizionario sono finite, così anche questi spunti.

mercoledì 5 marzo 2008

Dal Carrum Navalis alla Nave dei Folli. Alle origini rituali del carnevale

di Roberto Caielli

Il famoso racconto manzoniano della peste è lucido esempio del significato della relazione rituale fra teatro e sacro, simboli di vita e di morte, complice il carnevale. E anche nell’intreccio dei Promessi Sposi, il cui dramma centrale è l’amore ostacolato di Renzo e Lucia, la peste, insieme agli altri macro-motivi di crisi, ovvero la carestia e la guerra, serve da propulsione allo svolgimento dell’azione, è crisi sacrificale la cui espiazione equivale all’aver colto da parte del Manzoni le cause ultime della storia. L’episodio dei monatti ha più volte denunciato analogie coi protagonisti dello spettacolo medievale, ovvero il Carnevale, momento festivo di origine rituale della performance, e i giullari, primari veicoli di estensione e divulgazione di tale materiale performativo. Uno studio più approfondito delle loro origini primitive giustifica l’allusione insistita ai monatti e agli apparitori dei Promessi Sposi: da quest’ultimi e dalle loro qualità liminali inerenti al rapporto fra vivi e morti è convenuto prendere le mosse per provare a risalire a ritroso all’origine di tali dinamiche. Nel già citato volume “Le origini del teatro italiano”, P. Toschi pone le premesse riccamente documentate per una interpretazione simbolica del Carnevale. Il Toschi, dopo aver provato esaurientemente che nel Carnevale “...cioè in quella che per secoli è stata in Italia la principale festa di Capodanno, è da riconoscere la culla della nostra commedia” ricorrendo a testimonianze etnografiche e letterarie disparate e abbondanti, lascia insinuare nel quadro diligentemente tracciato dalla prospettiva etnologica il dubbio, il locum dove il cerchio non si chiude:

Tanto più difficile ci riesce, comunque, riconoscere nelle maschere italiane gli elementi che risalgono specificamente alle anime dei morti. Ma tali elementi esistono.

Il dubbio di Toschi si trasforma in proposta d’interpretazione affascinante e in intuizione ermeneutica. Rinviando alle “Origini del teatro italiano” per le notizie e le documentazioni generali riguardo al Carnevale, proviamo ad assumere quelle informazioni utili a sondare l’ apparentemente insondabile rapporto tra le maschere e le anime dei morti incominciando dal più generico rapporto fra morte e Carnevale.

In un passo dell’introduzione alla Nave dei folli di Brant, F. Saba Sardi prova a sintetizzare il contenuto di tale analogia senza ricorrere alle categorie socio-antropologiche della liminalità e dei riti di passaggio, ma proponendo una serie di spunti interessanti:

...i carnevali medievali erano macabri: sui veicoli si esibivano, mascherati da morte, i fools, e i carri stessi erano decorati di rappresentazioni della morte. Il festum fatuorum...era un accostamento al disordine, un viaggio ctonio compiuto tramite deiezioni, cose morte, putrefatte, orgia cioè con-fusione: in-famia, vale a dire l’indicibile, l’impronunciabile, il metaforizzabile per eccellenza, fonte di ogni rivelazione e di ogni tabù...E’ forse noto che l’attuale termine carnevale ha una doppia origine: carrus navalis e carnem levare; ma la prima è sicuramente più antica, la seconda è una sovrapposizione, una razionalizzazione, in quanto il carnevale “leva”, si, la carne dal momento che precede la quaresima, ma lo fa soltanto a partire dall’XI-XII sec. in Italia, quando la Chiesa riesce a sovrapporre le proprie alle costumanze pagane di cui di cui fino a quel momento ha dovuto farsi interprete e traduttrice.

L’idea iniziale è data dall’etimologia originaria fornita dal passo citato, ovvero Carnevale da Carrum Navalis, con riferimento a tutta la vasta mitologia che utilizza la nave e il carro come simboli di morte, dall’evidente funzione di indicare il trasporto delle anime dei morti nell’aldilà. In particolare, il viaggio per acqua è raccontato nei miti antichi d’origine disparata, ma ancora oggi l’idea persiste nei resoconti degli anziani pescatori rimasti in qualche lago del nord Italia, per i quali, come ha notato il Lanternari, è usuale l’attinenza fra “l’altra sponda” e l’aldilà. Il viaggio carnevalesco di tradizione iconografica e letteraria rinascimentale, ma di dimostrata origine medievale, della nave dei folli, per esempio, è di fatto un viaggio di morti: folle deriva da follia, mantice, dunque tutto ciò che pieno di vento, vacuo. Matto “dal tardo latino matus, ebbro, affine al greco màte, cosa vana, vuota, al sicano mattabus, mogio, al provenzale mat, triste, abbattuto, al mat francese...al catalano mat...allo spagnolo - portoghese mate, al rumeno ametì, stordire.”. Nel gioco delle etimologie il richiamo al mondo dei morti è ,nei termini che designano la follia, come nella parola Carnevale, evidente. Ma l’etimologia in sè, come nota lo stesso Saba Sardi, non ha a che fare con l’archeologia, quanto piuttosto con la poesia. Benchè proprio per questo essa sia testimone di qualche verità nascosta, ci pare però un limite fidarsi “isidorianamente” dell’etimo per ricamarvi magari barocche congetture: il nome accenna piuttosto ad una indicativa traccia, una possibile via da seguire, ma non è da sola sufficiente per una esauriente interpretazione del fenomeno che il nome rappresenta. Nel nostro caso, l’etimologia di Carnevale proposta converge l’attenzione sul modello rituale fondamentale del Carnevale: il passaggio, nel quale, con le dinamica degli spazi liminali, si ravvisano le componenti socio-simboliche istituzionali del rovesciamento. Per definire il Carnevale sotto questo punto di vista occorre sondare le sue origini storiche e la sua collocazione temporale: esso è una festa, erede dei saturnali e dei lupercali romani, connessa, come si comprede anche dalla più nota etimologia (Carnevale da carnem levare), al periodo della Quaresima. Al calendario pasquale e al significato stesso della festività di Pasqua il Carnevale è, come vedremo, intimamente connesso nei secoli cristiani del Medioevo. Si tratta, come fa notare V. Turner, di una festa mobile che “fa parte di un calendario cosmologico separato dal tempo storico ordinario”. Ogni festa, in effetti, si pone con la categoria del tempo in fondamentale rapporto. Il carnevale, “sorta di liberazione temporanea della verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici...era l’autentica festa del Tempo del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento.”Il carnevale medievale è come tutte quelle feste che “ in tutte le fasi di evoluzione storica sono state legate a periodi di crisi, di svolta, nella vita della natura, della società e dell’uomo. Il morire, il rinascere, l’avvicendarsi e il rinnovarsi sono sempre stati elementi dominanti nella percezione festosa del mondo”.

LO STRAORDINARIO SUCCESSO DI EMMA DANTE

di Elisa Ferrari

Periferia di Milano, alle porte del Gratosoglio, trent’anni fa qui il Salone ospitò i grandi del teatro, da Kantor a Grotowskij. Anni in cui la gente si riversava nelle periferie per vedere il Teatro, con la T maiuscola, anni in cui si scavalcavano i cancelli per avere un posto in platea.

Nel corso di questa stagione quell’atmosfera di ‘festa’ e, in un certo senso, di ‘comunità’ si è ricreata in occasione della messinscena de Il festino di Emma Dante. Lunghe file al botteghino, liste d’attesa, posti aggiunti sottoforma di cuscini che invadono il proscenio, tutto esaurito per tutte le sere di spettacolo.

Con Il festino si è chiusa al CRT la rassegna dedicata agli spettacoli di Emma Dante. Mishelle di Sant’Oliva, Carnezzeria, La Scimia, Mpalermu, Vita Mia, questi i titoli degli spettacoli che dal 20 Novembre al 6 dicembre hanno fatto registrare il tutto esaurito al botteghino del Teatro dell’Arte. Il festino, monologo tragico-brillante interpretato da un preparatissimo Gaetano Bruno e che potrebbe essere definito ‘piccolo dramma festaiolo per uomo e scope’, parla di una storia semplice quanto profonda. Un padre che da anni se n’è andato e che vuole tornare per prendersi la pensione d’invalidità del figlio. Due fratelli, identici, gemelli, Paride e Jacopo, “uno più aggrippato dell’altro, uno cretino e l’altro handicappato”, vivono in simbiosi. Uno mangia e l’altro si sazia, uno dorme e l’altro sogna. Fanno scherzi scambiandosi i nomi riuscendo ad imbrogliare tutti, tranne la mamma che punisce solo Paride, costringendolo a chiudersi nello sgabuzzino, al buio, in compagnia delle scope. Paride vuole insegnare a Jacopo a camminare “perché tutti i cristiani stanno in piedi”, e allora se lo prende in braccio e gli insegna il ritmo, sinistradestrasinistradestra…poi Jacopo cade, e muore. Allora Paride si crea un mondo tutto suo, nello sgabuzzino, con le scope. E’ il giorno del suo trentanovesimo compleanno, lucine azzurre a intermittenza illuminano una sorta di altare un po’ pacchiano: da un enorme pacco rosso che fa da tabernacolo Paride estrae sei scope colorate. Tutto è pronto, il festino può iniziare. Paride dopo una danza sfrenata con Sammi, Guendalina e le altre è pronto per la torta al ketchup, ma prima la magia…talitakum…e le scope stanno in piedi da sole…

Con questo spettacolo la Dante non perde l’interesse per i drammi familiari, e forse si avvicina in maniera più intima alla drammaticità dei fatti. La regista ricrea perfettamente quell’oblio di solitudine e pazzia in cui Paride si rifugia, permettendo al pubblico di entrare in punta di piedi in quello sgabuzzino buio per ammirare Paride che con un talitakum fa la magia delle scope. La gente in sala fatica a uscire da quello sgabuzzino, vorrebbe continuare la festa, e lo dimostra con applausi infiniti.

Applausi che hanno accompagnato anche tutti gli altri spettacoli ai quali il pubblico ha assistito con grande interesse ed entusiasmo, e i dati relativi all’affluenza lo dimostrano: 898 presenze per Carnezzeria, 590 per LaScimia, 934 per mPalermu, 360 per Mishelle e 483 per Vita Mia. Un totale di 3265 presenze in poco più di quindici giorni. Un traguardo importante per il CRT che si impone sempre più come punto di riferimento essenziale nella cultura teatrale.

COFANI FUNEBRI E LA MORTE SPETTACOLO

di Elisa Ferrari

La morte è ovunque. Siamo inondati da immagini di corpi esanimi: telegiornali, programmi di attualità, cartelloni, manifesti. Figure di cadaveri contorti, abbandonati, putrefatti, ammucchiati, si depositano sul cristallino e vengono rielaborate dai circuiti neuronali.

Nessuna reazione, nessuno sconvolgimento. La morte non ci appartiene più, non è più nostra, non è più parte della vita, è solo morte. Bisogna mostrarla, sempre più dettagliatamente, per poterne prendere le distanze. La morte è diventata un tabù, qualcosa da censurare, allontanare, dimenticare, fare finta che non esista. I morti in tv sono lontani da noi, la morte non ci può colpire, la morte mediatica non puzza, non fa male, incuriosisce, ma non si comprende, perché diventata inumana. Notizia al telegiornale: “Alcuni ragazzi riprendono con il telefonino una loro compagna agonizzante sul marciapiede.” Nessuno agisce, la mente è già oltre, su internet, su youtube, dove il filmato potrà essere caricato, cliccato, visto, rivisto.

Converso telefonicamente con Gianfelice Facchetti, autore/attore de Nel numero dei +, gli espongo queste mie divagazioni mentali…”E’ una mascherata doppia”, mi dice, “siamo vittime di un potere repressivo che costringe a trovare vie alternative…Ma se sai dov’è il nemico, sai anche il linguaggio per difenderti”. Dalla conversazione densa e accanita emerge che c’è nella società di oggi il desiderio incessante di sostituire il privato con il pubblico, di far diventare tutto evento, il potere incita ad esibirsi, ci troviamo in una società della rappresentazione. Nel numero dei + si ispira in particolare a due fatti riguardanti appunto il tema della morte: a Vancouver nella British Columbia è stato costruito un palazzo a nove piani tutto dedicato alla celebrazione di ‘funerali a tema’, ambientazioni esotiche, piuttosto che futuristiche. Mortyland per farla breve.

Su cofanifunebri.com, invece, la morte viene offerta come oggetto sessuale, di piacere: donne seminude o semivestite posano in atteggiamenti pseudo-provocanti appoggiandosi languide a diversi modelli di bare. Un calendario, ecco. Allora uno – il futuro morto o un familiare?- ordinerà la bara di giugno perché Clarissa è così viva che sembra quasi di ordinare un ninnolo su e-bay.

Meglio un’allusione al sesso della morte.

E allora il gioco sta tutto lì: censurare la morte e aspirare ad una giovinezza eterna. In un tempo che nega realtà alla vecchiaia e alla malattia il vibromassaggiatore e il botulino diventano il solo ed unico mezzo per cercare di allungare il più possibile la farsa.

Poi chiedo a Facchetti cosa ne pensa dei ragazzi che fotografano la compagna a terra con il telefonino: “E’ la percezione del videogioco: finita la partita il gioco inizia di nuovo, c’è un analfabetismo emotivo e sentimentale, giocano sul limite perché non c’è limite”.

Ma di chi è il compito di insegnare quale sia il limite? Anche perché forse non è più qualcosa che riguarda solo ed esclusivamente gli adolescenti: la spettacolarità della morte diventa evento espositivo-voyeuristico nelle mostre-autopsia dell’artista tedesco Gunter von Hagens, meglio conosciuto come dottor Morte, anatomopatologo cinquantottenne creatore della plastination. Il processo, che costituisce una vera e propria ‘mummi-plastificazione’ delle membra umane, permette di rendere cadaveri umani perfettamente rigidi ed inodori.

Si prende un corpo, meglio se già morto, ancor meglio se di una donna incinta, o di un uomo con deformazioni fisiche, lo si immerge in una soluzione di acetone a -25 per far sì che dreni i liquidi, sostituiti in seguito da iniezioni di plastica fluida, che solidificherà all’esposizione di raggi ultravioletti. Ecco fatto, il soggetto è servito, la materia pronta per essere scolpita, manipolata, sacrificata, o dissacrata. A questo punto il dottor morte darà sfogo al proprio estro artistico, agendo direttamente sulle carni, se tali ancora si possono chiamare. Così dottor Morte sega braccia e gambe e le appende a fili di nylon dando ‘vita’ ad un grottesco burattino dinoccolato e fluttuante, sventra il pancione di una donna incinta di cinque mesi ponendo in evidenza il feto, anch’esso plastinato. Forse il processo di plastinazione è stato creato proprio per questo, per rendere i corpi meno umani, per renderli più materiali, meri oggetti, manichini. Per avere forse un coinvolgimento meno diretto, meno intimo. Del resto ora la carne in buona parte è diventata plastica, materia inorganica, niente decomposizione, niente liquidi, odori, umori. Sul sito di Hagens si legge Body Worlds, the original exibition of real human bodies. Anche se proprio real non sono. Quest’uomo è un mostro? Di certo non un assassino, lui i corpi li prende negli obitori, è tutto legale, sono state firmate delle dichiarazioni prima del decesso.

Morale o immorale?

Si potrebbe persino pensare che, nell’ottica di una sfida alla morte, fenomeno di moda nella società contemporanea, l’attività del dottor Morte si inserisca perfettamente nella corsa verso l’immortalità.

Il dato certo è che le mostre di Hagens fanno il giro del mondo e registrano il tutto esaurito.

Cosa spinge le persone ad andare a vedere una mostra del genere? Curiosità, morbosità? Ancora una volta la morte viene commercializzata, divulgata… leggera, fresca, facile.

Ma una volta non c’era la morte nera? Ora no, si colgono altri colori: il viola - che fa morto, ma che va pure tanto di moda!- ci rimanda al Premio Fior Viola con il quale si premia il ‘miglior trattamento al morto ed alla famiglia’, e poi nuovi colori per i tessuti che arrederanno la camera mortuaria, nuove nuances, come l’ultima tonalità color champagne…questione di tanatoestetica.

RITRATTO DELL'ARTISTA DA SALTIMBANCO

La maschera alla luce di Starobinski

di Alessio Ramerino

Il teatro, come qualsiasi altra arte, è un mondo in cui ricorrono simbologie ben identificabili, in grado di rapportarsi al gradiente cronologico-artistico con modalità differente, quasi siano maschere paradossalmente capaci di agire ruoli diversi; una di queste maschere è il saltimbanco. Topos archetipo dell’arte rappresentativa, il saltimbanco è entrato nell’immaginario collettivo grazie a una capacità d’attrazione endemica e, come sempre avviene, la sublimazione dei suoi differenti significati è stata compito degli artisti: pittori, scrittori, poeti. Se, nascosta dietro la funzione prima del divertimento, sul trucco clownesco appaiono fascino, gioia, malinconia, tristezza e, talvolta, anche inquietudine, ciò lo si deve a un sostrato di rielaborazioni artistiche che hanno importunato come un’intermittenza costante la nostra crescita culturale.

L’itinerario che ha portato alla “sostituzione degli Dei ad opera dei pagliacci” è stato superbamente tracciato da Jean Starobinski nel suo Ritratto dell’artista da saltimbanco, in cui la penna del critico ginevrino sottolinea le tappe artistiche di un percorso letterario-estetico apparentemente tortuoso e eterogeneo, che superando l’istanza primitivistica di stampo romantico giungono ad enucleare significati più profondi e stratificatesi nella nostra ricezione di lettori e spettatori. Dal fool shakespeariano al Novecento l’immaginario artistico ha più volte rielaborato il significato della terribile maschera dell’artista circense, dell’acrobata e, più in generale, del clown, che si è affrancato dalla sua primigenia dimensione crepuscolare e legata al confine con il mondo dei morti ed è divenuto ironico ribaltatore della realtà corporea, personaggio salvifico e tragica figura di passaggio.

L’exploit dell’interesse verso gli artisti circensi si ritrova nell’Ottocento, evo permeato dall’ipocrisia borghese e dalle crudeli maschere che essa impone, e nella prima metà del secolo breve: a partire dai racconti dei primi cronisti e poeti – Gautier, Banville – che interpretavano fiere e circhi come colorate terre di mezzo tra la grigia realtà borghese e un Oriente favolistico, il mito del clown giunge a permeare i supremi esempi della scrittura di Baudlaire e della pittura di Picasso; il saltimbanco diviene figura eterea in bilico tra l’abisso e il cielo, la vita e la morte, in grado di far sognare il suo pubblico e di divenire alter ego liberatorio per gli artisti che a lui dedicano il loro interesse poetico. In quanto abitatori di confine, l’acrobata e il clown stessi sono soffrono di una forte dicotomia interna: il momento poetico del loro impegno nell’esercizio fisico li rende figure poetiche e eteree, mentre la loro normale vita terrena è resa greve dalla pesantezza del reale, della carne e di un corpo volgare; pur consapevole di una tale doppia natura essa sfugge alla maschera, poiché sublimata solo nella trasfigurazione della poesia ovvero nello “sforzo mentale dello spettatore” (p. 87).

Il moltiplicarsi costante dell’apparenza clownesca negli esempi citati da Starobinski, su tutti Baudelaire – la cui maschera da dandy palesa un’incredibile prossimità – e Piccasso, ma anche Flaubert, Verlaine, Lautrec, Seurat, Klee, e il suo apparire continuo in letteratura e letteratura drammatica, Poe, Hugo – e quindi Verdi – Böll è tuttavia da interpretare in relazione a “una società organicamente strutturata” (p. 154) come quella borghese e post-borghese, all’interno della quale le molteplici funzioni rivestite dal clown si oggettivizzano in interferenza derisoria del mito, del concetto di eroismo, dei modelli che la stessa società impone come vincenti. Ciò è cifra motivante il permanere del significato portato dal clown all’interno di arte e cultura: l’inquieta sensazione creata da un ruolo molteplice e multisignificante. “L’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento di inquietudine e di vita” (p. 150), tale è la funzione che il clown, come latore di un dubbio inquietante, rende e renderà sempre all’arte.

I CLOWN E LA CITTA'

di Alessandro Serena
Sono due le immagini che vengono in mente pensando al Festival del Clown di Milano, creato da Maurizio Accattato. Si tratta dell’apertura e della chiusura de I Clown, uno dei capolavori di Federico Fellini. Il regista di Rimini è l’artista italiano che in maggior misura ha legato il proprio immaginario a quello del circo, sino a ri-costituire quest’ultimo. I Clown inizia con la scena di Federico bambino, che si affaccia alla finestra un mattino grigio e (sorpresa!) al posto di un brullo piazzale desolato, scopre un mondo di colori, musica, umanità: nottetempo in città è arrivato un circo! È un po’ quello che succede con il Festival di Accattato. In una metropoli, spesso impegnata in corse frenetiche, alzarsi una mattina e scoprire che sono arrivati i clown è una bella sensazione. Per altro si tratta di clown che più che di far ridere si propongono di far riflettere, si adoperano nel sociale, cercano di far capire qualche loro istanza, invadono la città tentando di cambiarne alcune delle abitudini, si propongono in qualche modo come clown rivoluzionari. Ma l’immagine che chiude I Clown di Fellini è diversa e più malinconica. Il clown Zanzara (il cui figlio Fumagalli, per altro, è oggi fra i maggiori artisti della comicità) spiega al regista: “Lo sa signor Fellini, una volta facevo un numero con un mio compagno che si chiamava Fru Fru. Si faceva finta che era morto. Io entravo in scena e dicevo: dov’è Fru Fru? Ma non lo sai, mi diceva il direttore, è morto! Ma come è morto, dicevo io! Mi deve restituire le dieci salsicce e la candela che gli ho prestato l’anno scorso! Ebbene è morto, mi diceva il direttore. Dove posso trovarlo, dico io? Ma cretino, ti dico che è morto! Allora io che non mi davo per vinto, mi mettevo a chiamarlo: Fru Fru! Fru Fru! Niente. Non rispondeva. Che sia morto davvero, dicevo io? E se è morto come faccio a trovarlo? Uno non può mica sparire così. Da qualche parte deve stare. Fru Fru! Finché mi viene un’idea. Lo chiamerò con la tromba come quando lavorava con me. E così comincio a chiamarlo con la tromba. Suono le prime note… sto a sentire… niente. Riprovo. Era una canzone molto bella che faceva piangere. Faceva così…” e partiva uno struggente assolo di tromba. Il clown muore. E non può bastare un Festival per farlo risorgere o per scovarlo nascosto da qualche parte, come sperava Zanzara. Il clown è una figura seria, padroneggia delle tecniche antiche che però innova. Per far questo deve provare, allenarsi, non lasciare niente all’improvvisazione. Deve lavarsi i denti tutti i giorni. Il lavoro del clown e quello sul clown deve durare sempre, a volte tutta una vita. Altrimenti il rischio è quello di far riferimento ad un’altra figura simbolica che arriva dall’altro grande maestro del cinema, Charlie Chaplin che chiude il suo bellissimo Circus con Charlot seduto triste al centro della malinconica traccia di un cerchio di segatura. Uno dei luoghi comuni più diffusi del Novecento: il circo parte e lascia solo un ricordo. Il clown parte, ma deve lasciare qualcosa più.

Foglio critico prodotto dai partecipanti al laboratorio di critica teatrale presso il Crt su I GEMELLI di Giorgio Marini

di Valentina Ciardi

Durante l’incontro di presentazione che ha preceduto la prima serata de I Gemelli, tenutosi Lunedì 25 Febbraio presso il teatro CRT, il regista Giorgio Marini ha sottolineato con questo nuovo lavoro l’interesse nei confronti del testo ad opera dell’autrice Fleur Jaeggy. Fedele ad ogni parola, ad ogni singola punteggiatura del racconto – ha dichiarato Marini – il regista ha voluto giocare col linguaggio sviluppando una sorta di partitura musicale nella quale potesse trovare espressione il tema del doppio intorno al quale si sviluppa l’intera rappresentazione.

I gemelli sembrano indissolubilmente legati a partire dall’espressione verbale, nel loro interrompere le frasi a metà affinché l’uno termini quelle dell’altro o nel sovrapporsi di battute pronunciate all’unisono con toni che rievocano la prosodia cantilenante di certe filastrocche. Tuttavia questo intento si perde, a tratti, in una partitura verbale contemporanea, sincopata, in cui il discorso, faticando nel trovare una propria scansione ritmica e di senso, perde di vigore e di poesia, spegnendosi in una sorta di lamento interrotto, rotto.

Anche la scelta delle due interpreti femminili per i gemelli richiama il tema dell’ambiguità, della duplicità attraverso la forma del travestimento, ma il difficile tema dell’ambivalenza e del doppio, intimamente appartenente alla natura umana, fatica a trovare uno sviluppo coerente.

La prima associazione al termine "doppio" è l'altro Io dell'Io, il perturbante come lo chiamava Freud, quell'aspetto di noi che ci sconvolge perché corrisponde alla nostra oggettivazione, perché in lui vediamo noi stessi fuori di noi e perché nella percezione del "doppio" cominciamo a pensare noi stessi.
Il doppio è tale come ombra o come sosia, gemello oppure no. In ogni caso rappresenta un modo per cominciare a riflettere su se stessi. La rappresentazione di Marini non sempre permette allo spettatore di partecipare dialetticamente nella ricostruzione del racconto, negando pertanto la possibilità di innescare il meccanismo di riconoscimento e dunque di riflessione critica.

L’osmosi parossistica di due vite incapaci di soggettivarsi fino alla inevitabile perversa conclusione di un rapporto incestuoso solamente accennato, si perde forse nel difficile adattamento del testo di Fleur Jaeggy per il teatro. La sensazione è quella che siano state sfiorate diverse tematiche senza però riuscire a svilupparne nessuna. In fondo anche il centro dell’azione della diade sembra perdersi continuamente nella presenza di un terzo interlocutore che rischia di impedire con la propria presenza l’esplicitarsi di questo tema.

L’uso delle luci di taglio, nette, con l’alternarsi di un’atmosfera indistinta, nella semioscurità hanno ricreato un luogo privo di qualsiasi indicazione temporale e spaziale, connotato dalla sola presenza di un manto di neve bianca a ricoprire l’intero palcoscenico e due alberi di vago sapore beckettiano. La messinscena è risultata dunque di grande suggestione anche se compiacente ad un certo teatro autoreferenziale in cui si fatica a scorgere l’urgenza dell’espressione artistica.

martedì 8 gennaio 2008

Il linguaggio della provocazione tra cinema e teatro, a colloquio con Sergio Grmek Germani

di Roberto Caielli

L'etimologia di osceno e di provocazione esplora territori di confine tra pubblico e scena, che hanno marcato la storia recente del teatro, ne hanno sottolineato limiti e potenzialità. La provocazione e l'osceno sono una soglia che l'artista desidera varcare e sperimentare, obbedendo a un principio a volte istintivo a volte filosofico a volte soltanto stupido, a volte per amore dello scandalo che é pietra sublime nell'arte più straordinaria (Baudelaire docet), pronto però a trasformarsi nel pericoloso boomerang della banalità e della desolazione, quando non supportata d'adeguato genio. Cenalora si occupa in questo spazio-tempo d'inizio anno di un argomento delicato e necessario, radicato nell'antropologia rituale, figlia degli sconvolgenti resoconti sui cannibali del Pacifico o degli orrori dei mangiatori di cadaveri tribali, e radicato nel teatro, che ha assunto fin dalle origini il linguaggio della provocazione, per esprimere qualcosa di profondamente vicino all'animo ancestrale di ciascuno. Nel novecentro, il cinema con la sua profonda mediazione del vincolo del montaggio e dello schermo si é appropriato di questo linguaggio, trasformandolo in oggetto emotivo in alcuni casi assai potente, paradossalmente più potente della scena viva. Il famoso critico cinematografico Sergio Grmek Germani, direttore del festival triestino dei Mille Occhi, s'é prestato a un commento d'assoluta competenza rispetto al rapporto scena-immagine cinematografica, forte di una mai nascosta visione aperta e coraggiosa dei mezzi d'espressione e comunicazione. Peraltro, la recente edizione del Festival ha presentato un programma davvero eccezionale rispetto a questi temi. "Difficile decidere quale dei due mezzi comporti, per lo spettatore il maggior grado di fisicità - dice Germani - paradossalmente il corpo teatrale, vivo e presente, si mette più facilmente tra parentesi sulla scena. Questo é impossibile al cinema, dove il corpo non può o non vuole sottrarsi allo sguardo necessario della macchina da presa, dunque il cinema rappresenta oggi l'arte dei corpi reali. Nella nostra rassegna abbiamo tentato un percorso parallelo, alternando al film momenti in cui il corpo vivo é presente. Ma il cinema, nella nostra esperienza, consente al corpo vivo e alle sue emozioni di essere più dettagliatamente indagato e di perdurare nel tempo. Memorabile é stata, per esempio, la proiezione dell'incredibile film - documentario girato dallo scultore e videoartista giapponese S. Tajiri e da Ole Ege con la pornostar danese Bodil Joensen nel 1970 "A summer day" , un classico della pornografia europea e da noi presentato in prima visione italiana al Festival 2007. Un'immagine ossessivamente provocante, nella sua cruda tematica. Il pubblico, al termine della visione, é stato fermo nella sala per oltre cinque minuti, sottolineando col silenzio e con l'immobilità la forte emozione imbarazzante che persisteva". Il corpo vivo a teatro lo abbiamo visto invece un paio d'anni fa al Crt durante la performance della coreografa greca Apostolia Papadamaki. Chi era presente ha testimoniato della forte emozione presente in sala, di fronte al corpo nudo e offerto alla platea senza mediazioni, prepotentemente 'se stesso'. Sospendiamo volentieri queste riflessioni, che riprenderemo costantemente, certi che la tematica dell'osceno rappresenti una chiave di volta interpretativa del teatro attuale e delle sue involuzioni-evoluzioni future, e del suo forte e difficile ma obbligato rapporto con il mezzo cinematografico.

Roberto Caielli - Direttore di Cenalora

IL CORPO CHE ESPLODE NEL TEATRO DI EMMA DANTE


di Flavia Cardone

“Il teatro è oscenità”, sentenziava nel passato un certo Carmelo Bene. Ecco accadere sulla scena tutto quanto è fuori di scena, lontano dal comune senso del pudore scenico; ecco, spesso come murata la quarta parete, un corpo che esplode e implode, produce e trattiene, carnalissima indecenza che non si può nascondere. L’anima intanto è una flatulenza da smaltire e il resto è solo carne che va a male. Tutto questo qualcosa ha che fare con il teatro di Emma Dante, fosse solo l’amorevole idea di artaudiana memoria che lo spettatore esigente vuole essere ucciso, e ucciso sarà. Panna, piscio e sugo inondavano corpi e scene di Bene, mentre tra il pubblico della Dante Tombo lancia nudo noccioline ed i suoi cani di bancata pasteggiano senza eleganza sputando pane ovunque. Ma la quarta parete resta sempre meravigliosamente aperta, anzi sfondata, con l’odore fetido di panni sporchi che si dovrebbero lavare in famiglia a spargersi ovunque.

Le parole “fetore” e “sporcizia” ricorrono spesso nei racconti che Emma fa a proposito del suo teatro, fatto di storie che non hanno alcun intento provocatorio, casomai liberatorio, figlie da partorire con estrema urgenza, ferite da consegnare al mondo perché facciano un po’ meno male. Sembra preoccuparsi di rispettare la propria possibilità di essere violenta, forse semplicemente perché la vita lo è e il teatro, questo piaceva credere ad Artaud, come i sogni, è sanguinario e inumano.

Sangue, sperma, vomito, sudore: il teatro della Dante è teatro delle cose che il corpo genera – non a caso, persino la parola non è mai pronunciata ma sempre generata -, teatro sessuale e non sensuale, oscenità visiva che risponde a bisogni primordiali e strazianti. Tutto quanto eccede e rompe le barriere del corpo sembra interessare la Dante e le sue scene di lirica immoralità, dionisiacamente scandalose, lo raccontano.

Attraversando le stanze del dolente condominio che le sue famiglie incarnano, si vedono nelle fila di una sgraziata processione un uomo che vomita dolci, una sposa già gravida, un figlio che masturba il padre, una scimmia che mangia ostie e dice messa, un uomo in vesti femminili, una tragedia dove il coro di donne è fatto di uomini, una decina di mafiosi che si masturbano gioiosi. Quasi un teatro di “schiaffi e sodomie”, come si è detto di Sarah Kane. Dov’è l’osceno in tutto questo? Certo non nei genitali esibiti e nemmeno nel racconto di una sessualità incerta, ma in certi modi sgraziati, volgari, meravigliosi con cui la Dante sfida le leggi della natura e del pudore e prova a dar fastidio alla sua platea. Ma mai che ci sia un elemento a figurare un’oscenità che non sia scenicamente e drammaturgicamente funzionale.

Sembra tutto molto poco nobile, ma è così. Ed è così difficile da soli, che tutto questo malsano non può che esplodere all’esterno. In Carnezzeria il liquido seminale ingravida incestuoso Nina mentre Toruccio sembra giocare al cavalluccio ma in realtà la scena, e tutto quel cavalcare di gambe e sudore che cola, raccontano di un padre che si fa masturbare: osceno è il malsano che è dentro la “sacra” famiglia, oscene sono le luci festose che illuminano questo inferno. Un uomo corre poi nudo, una scimmia, sul palco e manda all’aria l’idea di messa, lasciando gli altri a discutere se questo sia sacrilegio o puro istinto animale: ma lo scandalo de La scimia sono le zitelle che inghiottono abbrutite rosari come fanno con le parole suggerite a messa e in automatico si disegnano addosso la croce. Ci sono poi i Cani di bancata che spargono sperma eccitati da un’Italia capovolta, la Sicilia sopra tutto, ormai conquistata, orgia di potere dove il liquido seminale sconvolge la griglia ordinata dei pensieri, delle geografie, dei santini ordinati in fila sul proscenio. Anche a coprirsi il volto, gli schiocchi del loro sesso che va su e giù non si possono non ascoltare e la follia nella mafia è di chi vede e fa finta di non vedere, non certo nel riconfigurare il Padre Nostro includendo la madre, mafia cagna e femmina. Che il teatro appartiene a Sacher Masoch, pensa Romeo Castellucci, e forse non ha torto. Trasversalmente a tutto questo, del cibo viene sempre ingurgitato con poca grazia -i pasticcini di mPalermu che conducono al miracolo dell’acqua, il pane di Cani di Bancata, quasi ostia per il rituale della spartizione dei poteri, le noccioline de La Scimia- secondo una sorta di legge dell’oscenità del vedere figlia dell’istinto che guida la Dante. Ed il sesso sommerge le scene, osceno in quanto eccedenza, ossessione segno reversibile. Tornano in mente le parole di Baudrillard, “il femminile è sempre altrove”, davanti al teatro matriarcale di Emma. Potente in quanto sempre là dove non si pensa di essere, spinta violenta al vacillare delle categorie sessuali, principio di incertezza per definizione, il femminile non è un sesso ma come una forma morbida che li attraversa tutti: se il maschile non è che un residuo, deve difendersi, mostrandosi forza, nascondendo allora debolezza. Ecco allora i tre fratelli di Carnezzeria davanti alle foto d’infanzia dove uno di loro pare essere bambina farsi violenza, sforzi indicibili per sottrarsi al femminile, e il coro della Medea fatto di uomini travestiti da donne. Soprattutto, poi Mishelle di Sant’Oliva. Come altrimenti vorrebbe Freud, perché l’anatomia dovrebbe essere il destino? O forse lo è, e per rincorrere una madre svanita nel passato bisogna andarci contro, vestirsi, svestirsi, travestirsi. Il desiderio così eccede il corpo e i suoi contorni pure.

Tutto questo solo per dire che non c’è niente che non si possa rappresentare in teatro, inferno immaginario in cui si incrociano, senza che niente coincida mai, attori e spettatori. Niente pornografia, nessuna oscenità: non si offende il pudore, lo si sfida solo, con una sacra, blasfema violenza.

GRAFFIARE L'ANIMA

Il cane di Habacuc e il linguaggio della performance

di Laura Calebasso

Che il cane di Guglielmo Habacuc Vargas (Bienarte 2007) sia morto assassinato o a causa delle sue pulci, che sia stato comprato da alcuni bimbi di strada, che sia stato accudito di nascosto oppure maltrattato, che sia scappato e che in questo momento stia riposando esausto sul lungolago di Managua forse non lo sapremo mai.

A ottobre Bienarte 2007 (Costarica) apre i suoi battenti: l’evento avrebbe avuto un’eco internazionale relativamente limitato se non fosse stato per la presenza di un cane moribondo, legato sotto un murales di croccantini, e secondo alcune agenze di stampa lasciato morire tra l’indifferenza degli spettatori. Rapidamente le immagini del vernissage fanno il giro del mondo, si scatenano i blog, si sollevano le associazioni. Finché qualcuno non solleva il più che legittimo dubbio che si tratti di un fake. Ma il sasso è lanciato.

Si lascia una tela sul marciapiede perché ricorda Renato Curcio, ma la performance suscita qualcosa di diverso. Immediato e irripetibile, l’atto performativo, i cui confini sfuggono, colpisce. Uno strumento potente e persino auto distruttivo sul quale non possiamo che continuare ad interrogarci.

Ogni teoria del teatro pone l’esigenza di definire un linguaggio ed uno scopo capaci di tracciare il profilo della propria idea di teatro. Queste scelte hanno molto da raccontare sulle società che le ha generate. Probabilmente il negoziato che ci riguarda è insondabile ai nostri occhi ma questo non ci vieta di domandarci ripetutamente quali siano i mezzi comunicativi a disposizione del teatro oggi, e dove si trovi la frontiera che ne delimita i confini.Della comunicazione, sappiamo che essa vive solo il tempo di essere strettamente necessaria. Superata questa soglia le sue ali impalpabili si sbriciolano silenziosamente per gettarsi nel ronzio incessante che ci avvolge di grigiore, sotto quantitativi industriali di pailettes, brillanti lame polverizzate che hanno perduto ogni potere incisivo. Strumenti taglienti, scandalosi, irrisori… Nello scandalizzarti ti senti vivo, diverso da quando passi ore ipnotizzato di fronte alle lunghe cosce di un milione di soubrettes, che sfilano sul tuo televisore di casa. Si: perché sempre e comunque lo scempio salverà l’uomo, come il Cristo in croce! Per questo una miriade di piccoli pronipoti di Artaud sperimentano su di noi i loro coltelli lanciati senza criterio. Per una buona causa: svegliarci dal torpore. Peccato che ora, sulla nostra pelle lustra si può pattinare come sopra un lago ghiacciato. Eppure comunicare è semplice e ancestrale come fare il pane. Procedimenti artigianali di prima necessità presuppongono tuttavia elementari ingredienti di cui non è possibile fare a meno. Un motivo per rendersi ricettivi e la voglia di mettersi davvero in gioco, sono l’acqua e la farina a partire da cui è possibile inventare qualsiasi tipo di interazione genuina. Senza, il teatro non superera il grado di realtà di una bolla speculativa. Ci vuole autentica, necessaria potenza perché la libertà di uno spazio mentale possa convergere in uno spazio comune, e lambire i confini entro cui ognuno è condannato.

LA PAROLA DI GHIACCIO

Etimologia della provocazione, all'ombra di Testori e Artaud

di Serena Mola

Cosa si/ci provoca oggi (nel significato etimologico del verbo, pro vocare, chiamare fuori)?

Il ‘68 e Woodstock sono passati e un certo sdoganamento “di costume” già ce l’hanno insegnato; la donna s’è, più o meno, emancipata; la società s’è, più o meno modernizzata; dall’estetica crociana ci siamo liberati, e però siamo anocra lì, legati al dilemma platonico del corpo e della sua carnalità.

Siamo in continuazione “aizzati” da questo punto di vista, teatralmente e non... ma siamo sicuri che ci bastino ancora corpi nudi, parolacce o altri gesti più o meno insoliti??

Purtroppo, o per fortuna, sono due gli elementi grazie ai quali vive la provocazione oggi, quelli da cui scaturisce l’osceno. Due cose che però diventano una sola: il corpo, che seduce, strega e fa paura, e la parola, che comunica, pervade il mondo, lo colonizza.

Se il corpo parla, la parola si fa corpo.

Senza addentrarsi nella provocazione del corpo che parla, che rischierebbe di farci cadere nello stufo e annoiato già detto morale/moralistico, consideriamo il secondo aspetto.

Il peggior trattamento della parola-corpo è, oggi, quello della parola parlata della tv e della parola scritta dei cellualri: nel primo caso è un corpo vocale e verbale che si sacrifica in costruzioni improbabili, in accostamenti raccapriccianti e in versi, rumori, quasi. Nel secondo caso, invece, la parola è violentata a colpi di k e cadute vocaliche; solo così, infeltrendosi in sigle che hanno dell’ostrogoto entra nei 120 caratteri di un sms, tutta appuntita e spigolosa.

Appuntita e spigolosa è però anche la parola autenticamente crudele (con la C maiuscola) e provocante, quella del Van Gogh di Artaud che ingoia il colore prima di “vomitarlo” sulla tela, che Artaud stesso concepisce e percepisce attraverso lampi, scossoni (quasi presagendo il suo martirio all’alettro-shock) cerebrali, quella che Testori costruisce e uccide come il corpo di Adriana Innocenti sulla scena.

Artaud e Testori.

1924 e 1969.

Ombilic des limbes e Erodiade.

Le vicinanze tra i duea questo proposito sono eclatanti.La parola corpo è per entrambi fatta di ghiaccio: per Artaud essa è una floraison glacée, con tutto ciò che questa sublime immagine comporta, per Testori invece essa nasce dal frantumarsi della parete di ghiaccio tra palco e platea, tra scrittore e attore prima, e tra attore e pubblico poi. Entrambi credono in questa forza dirompente che, già dentro di noi, emerge con urgenza incarnandosi nella forma del monologo, sia esso lirico o teatrale.

È questa la crudeltà, quella vera, questa la provocazione che stringe un nodo alla gola e ti fa lacrimare gli occhi, questo l’osceno che gli occhi te li fa chiudere. Speriamo allora che questo ghiaccio non si sciolga.

L'OSCENO E IL POTERE

di Sisto Dalla Palma

Il teatro si colloca in quel punto dove il deficit riguarda l’espressione corporea, la presenza, l’esperienza dell’altro, il dialogo, la relazione faccia a faccia, il contatto. Quanto si evoca la comunità virtuale, i sistemi in rete, si introducono elementi di agglomerazione, di stimoli e di segni che rispondono a bisogni reali, ma in cui la risposta è sprovvista di quelle componenti di corporeità, di imprinting individuale o di gruppo che noi riconosciamo al teatro.

Di fronte alla disperazione e alla solitudine, alla deriva del soggetto, in una società che garantisce una alluvione di stimoli e di segnali, ma poi lascia il soggetto diventare vittima di questa ridondanza di segni privi di affetti, di fronte a questo, dicevo, si generano delle controspinte. Una è quella della comunità virtuale – vale la pena osservare che l’espressione “comunità virtuale” è un evidente ossimoro – e l’altra è quella che ci riguarda come discorso sul teatro.

Di quale teatro stiamo parlando? A me pare che nella parabola di una o due generazioni ci siano state dentro le istituzioni, oscillazioni, adattamenti, riequilibri rispetto alle spinte del cambiamento. Parallelamente si è avuta anche una rinvigorita rigidità del sistema, il quale si e spesso illuso di offrire risposte significative ad esempio con le drammaturgie neo barocche alla Ronconi e la radicalizzazione inquietante della spettacolarità e a una erosione dei campi semantici capaci di esprimere un ethos. Si assiste così ad un drenaggio delle risorse, a un reinvestimento di queste risorse non in una pratica alternativa, ma in una pratica concorrenziale rispetto all’immaginario spettacolare quotidiano. In realtà, in questa evoluzione, c’è il vizio mimetico di ripetere nel teatro la spinta concorrenziale coi media. Mentre il problema è quello di recuperare il teatro come differenza e come divergenza rispetto alla spettacolarità diffusa e perversa.

Il grande blocco istituzionale ha avuto una evoluzione abbastanza inquietante dal punto di vista delle strutture politiche: controllo delle lobbies, apparati di potere, cortocircuito tra politica e cultura, possibilità di questi centri di potere, condizionare e orientare le formazioni nuove e quindi di attirare dentro al vortice istituzionale anche i gruppi marginali.

I gruppi marginali, le avanguardie, tutti quelli che hanno fatto o fanno le esperienze del cambiamento, che cosa hanno rivelato? Hanno rivelato sostanzialmente un peccato: hanno subito per così dire lo sguardo del basilisco, quell’incantamento che è l’espressione di un pensiero debole, dell’incapacità di opporsi alla cultura dominante, con un progetto realmente alternativo, diventando così subalterni alla logica del potere. La rilevanza del fatto estetico e del formalismo è, in definitiva, l’ultimo alibi del disimpegno, della rinuncia a fare sistema e a dotarsi di una strategia politica complessiva. La crisi.della sperimentazione mostra che nella microfisica del potere, di cui ogni gruppo si fa a suo modo portatore, ciò che conta non è essere, ma esserci. Esserci nel grande barnun delle istituzioni culturali, nel godimento profuso dei centri di iniziativa politica e amministrativa, in quella grande festa bandita che sono le notti bianche, le notti romane, i festivals estivi in cui si reitera in modo indecente la pratica del “panem et circenses”. Osceno è, etimologicamente, ciò che deve situarsi fuori dalla scena, al riparo di sguardi indiscreti. Ma oggi è la scena stessa che è diventata o-scena, senza più linee distintive tra pubblico e privato, tra discreto e indiscreto, tra pudico e impudico. L’epos della singolarità chiusa e autosufficiente è il luogo dove si trasferisce il silenzio del mondo, il delirio del desiderio, la soggettività imperante. Il trionfo dell’io genera un simulacro della scena, la sua autoreferenzialità. Non do una valutazione di ordine moralistico. Il potere ha frantumato tutto.

(tratto da Oltre il teatro del margine, in "Animazione sociale", testo raccolto da A. Pontremoli)

NASCITA (E MORTE) DELL'OSCENO


Dall'azionismo viennese alla violenza di grammatica
di Diego Vincenti

Violenza (e oscenità) drammaturgica. Carne e parola (sovra)esposte, veicoli da maneggiare con delicatezza, fra strumento e mera provocazione. Ma se la parola è stata quasi sdoganata grazie alle anguste dimensioni del mezzo (si pensi alla differenza con le trasmissioni televisive), una lettura strettamente fisico/estetica si apre su reazioni complesse e diverse. Forse solo l’Azionismo Viennese diede a queste due parole la forza d’essere manifesto programmatico, la possibilità nella performance di sottrarsi alla bassezza del gesto, alla gratuità poietica (non teorica). Confini labili quelli in cui si mossero Hermann Nitsch e compagnia, nella placida Vienna fra happening e body art, fluxus e i nascenti atti performativi. All’epoca (siamo nei Sessanta), lo spostare il centro strutturale e formale della rappresentazione verso il corpo, divenne critica estetico-politica a una società dei consumi già ben avviata, colpo basso alla mentalità comune e piccolo borghese con cui si convive(va). Il gioco era urlato, senza regole, bisognava puntare pesante. E la scelta del Wiener Aktionismus fu di sporcarsi (letteralmente…) le mani. Automutilazioni, sacrifici animali, secrezioni corporali, sesso: chi s’aggira per il Mumok della capitale austriaca, ha la possibilità di vedere come tutto fu rimesso in scena attraverso il tutto. In confronto, il passeggiare nel 1968 di Valie Export con il suo amico Peter Weibel al guinzaglio, appare quasi una goliardata (ed è indicativo come fu sperimentata la stessa cosa a Bologna nel 2003 nell’indifferenza cittadina). L’inaccettabilità comune della scelta artistica è in sé silenziosa vittoria di una “drammaturgia” lentamente istituzionalizzatasi nella follia. Dopo la giovanissima morte “via finestra” di Rudolf Schwarzkogler, le apparizioni azioniste nel neonato OutOff intorno al 1976 furono da una parte la fagocitazione della stessa provocazione da parte del provocato – divenendo il gesto scenico parte di un circuito elitario ed intellettuale (nonostante fughe, svenimenti e notti insonni: Nitsch faceva colare budella d’agnello sui genitali della modella e amenità simili) –, dall’altra segno di una deriva mistico/idolatrante che pur riguardando nello specifico i protagonisti del (non) movimento, sembrano segnare la via a studi che indaghino il limite (in)valicabile. Concetto tra l’altro alla base dello stesso azionismo, che aveva nella “prova di forza” (fisica e psicologica) l’Ultimo atto performativo nel quale provarsi. Un’eredità sommaria e difficile, che si rispecchia maggiormente nelle performance che in un teatro ancora molto legato al senso classico. Più una Yasmeen Godder che un Rodrigo Garcia, nonostante Matar para comer e i difficili rapporti con gli astici. Ma è una questione di quantità, non qualità.

Fisiologicamente elitario (e quindi intellettuale), il teatro soffre così la misera diffusione e spinge a una razionalizzazione della fruizione che mal si adegua alla reattività visiva del contatto epidermico. L’occhio è il veicolo di una vicinanza esasperata che confonde, faticosamente tenuta a distanza dalla ritualizzazione. Diversi (ma sempre pochi) i casi in cui il linguaggio si fa violentemente osceno, rara ormai la gratuità del gesto, anche quando la stampa lo presenta in questi termini. Ed è forse questo l’aspetto che è divenuto nel tempo più teatralmente peculiare: la violenza è ora grammatica, l’oscenità solo categoria di giudizio di chi guarda, a cui opinione pubblica e spettatori rimangono diversamente (in)differenti. Sensibile alla provocazione, la categoria di giudizio crolla miseramente nel gioco meta teatrale dell’azione/reazione, improvvisamente scivolando (in minoranza) verso connotati universali (kantiani) che in origine non le appartengono. E qui si torna all’Azionismo. Al pensiero dominante e piccolo-borghese. Ma in una città (e un Paese) che ancora chiude mostre e censura trasmissioni, è un discorso lungo e doloroso, da fare a mezza voce.