martedì 8 gennaio 2008

IL CORPO CHE ESPLODE NEL TEATRO DI EMMA DANTE


di Flavia Cardone

“Il teatro è oscenità”, sentenziava nel passato un certo Carmelo Bene. Ecco accadere sulla scena tutto quanto è fuori di scena, lontano dal comune senso del pudore scenico; ecco, spesso come murata la quarta parete, un corpo che esplode e implode, produce e trattiene, carnalissima indecenza che non si può nascondere. L’anima intanto è una flatulenza da smaltire e il resto è solo carne che va a male. Tutto questo qualcosa ha che fare con il teatro di Emma Dante, fosse solo l’amorevole idea di artaudiana memoria che lo spettatore esigente vuole essere ucciso, e ucciso sarà. Panna, piscio e sugo inondavano corpi e scene di Bene, mentre tra il pubblico della Dante Tombo lancia nudo noccioline ed i suoi cani di bancata pasteggiano senza eleganza sputando pane ovunque. Ma la quarta parete resta sempre meravigliosamente aperta, anzi sfondata, con l’odore fetido di panni sporchi che si dovrebbero lavare in famiglia a spargersi ovunque.

Le parole “fetore” e “sporcizia” ricorrono spesso nei racconti che Emma fa a proposito del suo teatro, fatto di storie che non hanno alcun intento provocatorio, casomai liberatorio, figlie da partorire con estrema urgenza, ferite da consegnare al mondo perché facciano un po’ meno male. Sembra preoccuparsi di rispettare la propria possibilità di essere violenta, forse semplicemente perché la vita lo è e il teatro, questo piaceva credere ad Artaud, come i sogni, è sanguinario e inumano.

Sangue, sperma, vomito, sudore: il teatro della Dante è teatro delle cose che il corpo genera – non a caso, persino la parola non è mai pronunciata ma sempre generata -, teatro sessuale e non sensuale, oscenità visiva che risponde a bisogni primordiali e strazianti. Tutto quanto eccede e rompe le barriere del corpo sembra interessare la Dante e le sue scene di lirica immoralità, dionisiacamente scandalose, lo raccontano.

Attraversando le stanze del dolente condominio che le sue famiglie incarnano, si vedono nelle fila di una sgraziata processione un uomo che vomita dolci, una sposa già gravida, un figlio che masturba il padre, una scimmia che mangia ostie e dice messa, un uomo in vesti femminili, una tragedia dove il coro di donne è fatto di uomini, una decina di mafiosi che si masturbano gioiosi. Quasi un teatro di “schiaffi e sodomie”, come si è detto di Sarah Kane. Dov’è l’osceno in tutto questo? Certo non nei genitali esibiti e nemmeno nel racconto di una sessualità incerta, ma in certi modi sgraziati, volgari, meravigliosi con cui la Dante sfida le leggi della natura e del pudore e prova a dar fastidio alla sua platea. Ma mai che ci sia un elemento a figurare un’oscenità che non sia scenicamente e drammaturgicamente funzionale.

Sembra tutto molto poco nobile, ma è così. Ed è così difficile da soli, che tutto questo malsano non può che esplodere all’esterno. In Carnezzeria il liquido seminale ingravida incestuoso Nina mentre Toruccio sembra giocare al cavalluccio ma in realtà la scena, e tutto quel cavalcare di gambe e sudore che cola, raccontano di un padre che si fa masturbare: osceno è il malsano che è dentro la “sacra” famiglia, oscene sono le luci festose che illuminano questo inferno. Un uomo corre poi nudo, una scimmia, sul palco e manda all’aria l’idea di messa, lasciando gli altri a discutere se questo sia sacrilegio o puro istinto animale: ma lo scandalo de La scimia sono le zitelle che inghiottono abbrutite rosari come fanno con le parole suggerite a messa e in automatico si disegnano addosso la croce. Ci sono poi i Cani di bancata che spargono sperma eccitati da un’Italia capovolta, la Sicilia sopra tutto, ormai conquistata, orgia di potere dove il liquido seminale sconvolge la griglia ordinata dei pensieri, delle geografie, dei santini ordinati in fila sul proscenio. Anche a coprirsi il volto, gli schiocchi del loro sesso che va su e giù non si possono non ascoltare e la follia nella mafia è di chi vede e fa finta di non vedere, non certo nel riconfigurare il Padre Nostro includendo la madre, mafia cagna e femmina. Che il teatro appartiene a Sacher Masoch, pensa Romeo Castellucci, e forse non ha torto. Trasversalmente a tutto questo, del cibo viene sempre ingurgitato con poca grazia -i pasticcini di mPalermu che conducono al miracolo dell’acqua, il pane di Cani di Bancata, quasi ostia per il rituale della spartizione dei poteri, le noccioline de La Scimia- secondo una sorta di legge dell’oscenità del vedere figlia dell’istinto che guida la Dante. Ed il sesso sommerge le scene, osceno in quanto eccedenza, ossessione segno reversibile. Tornano in mente le parole di Baudrillard, “il femminile è sempre altrove”, davanti al teatro matriarcale di Emma. Potente in quanto sempre là dove non si pensa di essere, spinta violenta al vacillare delle categorie sessuali, principio di incertezza per definizione, il femminile non è un sesso ma come una forma morbida che li attraversa tutti: se il maschile non è che un residuo, deve difendersi, mostrandosi forza, nascondendo allora debolezza. Ecco allora i tre fratelli di Carnezzeria davanti alle foto d’infanzia dove uno di loro pare essere bambina farsi violenza, sforzi indicibili per sottrarsi al femminile, e il coro della Medea fatto di uomini travestiti da donne. Soprattutto, poi Mishelle di Sant’Oliva. Come altrimenti vorrebbe Freud, perché l’anatomia dovrebbe essere il destino? O forse lo è, e per rincorrere una madre svanita nel passato bisogna andarci contro, vestirsi, svestirsi, travestirsi. Il desiderio così eccede il corpo e i suoi contorni pure.

Tutto questo solo per dire che non c’è niente che non si possa rappresentare in teatro, inferno immaginario in cui si incrociano, senza che niente coincida mai, attori e spettatori. Niente pornografia, nessuna oscenità: non si offende il pudore, lo si sfida solo, con una sacra, blasfema violenza.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Emma Dante é davvero una regista che ha il senso del corpo, cosa assai rara nel mondo teatrale di oggi.