Il cane di Habacuc e il linguaggio della performance
di Laura Calebasso
Che il cane di Guglielmo Habacuc Vargas (Bienarte 2007) sia morto assassinato o a causa delle sue pulci, che sia stato comprato da alcuni bimbi di strada, che sia stato accudito di nascosto oppure maltrattato, che sia scappato e che in questo momento stia riposando esausto sul lungolago di Managua forse non lo sapremo mai.
A ottobre Bienarte 2007 (Costarica) apre i suoi battenti: l’evento avrebbe avuto un’eco internazionale relativamente limitato se non fosse stato per la presenza di un cane moribondo, legato sotto un murales di croccantini, e secondo alcune agenze di stampa lasciato morire tra l’indifferenza degli spettatori. Rapidamente le immagini del vernissage fanno il giro del mondo, si scatenano i blog, si sollevano le associazioni. Finché qualcuno non solleva il più che legittimo dubbio che si tratti di un fake. Ma il sasso è lanciato.
Si lascia una tela sul marciapiede perché ricorda Renato Curcio, ma la performance suscita qualcosa di diverso. Immediato e irripetibile, l’atto performativo, i cui confini sfuggono, colpisce. Uno strumento potente e persino auto distruttivo sul quale non possiamo che continuare ad interrogarci.
Ogni teoria del teatro pone l’esigenza di definire un linguaggio ed uno scopo capaci di tracciare il profilo della propria idea di teatro. Queste scelte hanno molto da raccontare sulle società che le ha generate. Probabilmente il negoziato che ci riguarda è insondabile ai nostri occhi ma questo non ci vieta di domandarci ripetutamente quali siano i mezzi comunicativi a disposizione del teatro oggi, e dove si trovi la frontiera che ne delimita i confini.Della comunicazione, sappiamo che essa vive solo il tempo di essere strettamente necessaria. Superata questa soglia le sue ali impalpabili si sbriciolano silenziosamente per gettarsi nel ronzio incessante che ci avvolge di grigiore, sotto quantitativi industriali di pailettes, brillanti lame polverizzate che hanno perduto ogni potere incisivo. Strumenti taglienti, scandalosi, irrisori… Nello scandalizzarti ti senti vivo, diverso da quando passi ore ipnotizzato di fronte alle lunghe cosce di un milione di soubrettes, che sfilano sul tuo televisore di casa. Si: perché sempre e comunque lo scempio salverà l’uomo, come il Cristo in croce! Per questo una miriade di piccoli pronipoti di Artaud sperimentano su di noi i loro coltelli lanciati senza criterio. Per una buona causa: svegliarci dal torpore. Peccato che ora, sulla nostra pelle lustra si può pattinare come sopra un lago ghiacciato. Eppure comunicare è semplice e ancestrale come fare il pane. Procedimenti artigianali di prima necessità presuppongono tuttavia elementari ingredienti di cui non è possibile fare a meno. Un motivo per rendersi ricettivi e la voglia di mettersi davvero in gioco, sono l’acqua e la farina a partire da cui è possibile inventare qualsiasi tipo di interazione genuina. Senza, il teatro non superera il grado di realtà di una bolla speculativa. Ci vuole autentica, necessaria potenza perché la libertà di uno spazio mentale possa convergere in uno spazio comune, e lambire i confini entro cui ognuno è condannato.
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