mercoledì 5 marzo 2008

Dal Carrum Navalis alla Nave dei Folli. Alle origini rituali del carnevale

di Roberto Caielli

Il famoso racconto manzoniano della peste è lucido esempio del significato della relazione rituale fra teatro e sacro, simboli di vita e di morte, complice il carnevale. E anche nell’intreccio dei Promessi Sposi, il cui dramma centrale è l’amore ostacolato di Renzo e Lucia, la peste, insieme agli altri macro-motivi di crisi, ovvero la carestia e la guerra, serve da propulsione allo svolgimento dell’azione, è crisi sacrificale la cui espiazione equivale all’aver colto da parte del Manzoni le cause ultime della storia. L’episodio dei monatti ha più volte denunciato analogie coi protagonisti dello spettacolo medievale, ovvero il Carnevale, momento festivo di origine rituale della performance, e i giullari, primari veicoli di estensione e divulgazione di tale materiale performativo. Uno studio più approfondito delle loro origini primitive giustifica l’allusione insistita ai monatti e agli apparitori dei Promessi Sposi: da quest’ultimi e dalle loro qualità liminali inerenti al rapporto fra vivi e morti è convenuto prendere le mosse per provare a risalire a ritroso all’origine di tali dinamiche. Nel già citato volume “Le origini del teatro italiano”, P. Toschi pone le premesse riccamente documentate per una interpretazione simbolica del Carnevale. Il Toschi, dopo aver provato esaurientemente che nel Carnevale “...cioè in quella che per secoli è stata in Italia la principale festa di Capodanno, è da riconoscere la culla della nostra commedia” ricorrendo a testimonianze etnografiche e letterarie disparate e abbondanti, lascia insinuare nel quadro diligentemente tracciato dalla prospettiva etnologica il dubbio, il locum dove il cerchio non si chiude:

Tanto più difficile ci riesce, comunque, riconoscere nelle maschere italiane gli elementi che risalgono specificamente alle anime dei morti. Ma tali elementi esistono.

Il dubbio di Toschi si trasforma in proposta d’interpretazione affascinante e in intuizione ermeneutica. Rinviando alle “Origini del teatro italiano” per le notizie e le documentazioni generali riguardo al Carnevale, proviamo ad assumere quelle informazioni utili a sondare l’ apparentemente insondabile rapporto tra le maschere e le anime dei morti incominciando dal più generico rapporto fra morte e Carnevale.

In un passo dell’introduzione alla Nave dei folli di Brant, F. Saba Sardi prova a sintetizzare il contenuto di tale analogia senza ricorrere alle categorie socio-antropologiche della liminalità e dei riti di passaggio, ma proponendo una serie di spunti interessanti:

...i carnevali medievali erano macabri: sui veicoli si esibivano, mascherati da morte, i fools, e i carri stessi erano decorati di rappresentazioni della morte. Il festum fatuorum...era un accostamento al disordine, un viaggio ctonio compiuto tramite deiezioni, cose morte, putrefatte, orgia cioè con-fusione: in-famia, vale a dire l’indicibile, l’impronunciabile, il metaforizzabile per eccellenza, fonte di ogni rivelazione e di ogni tabù...E’ forse noto che l’attuale termine carnevale ha una doppia origine: carrus navalis e carnem levare; ma la prima è sicuramente più antica, la seconda è una sovrapposizione, una razionalizzazione, in quanto il carnevale “leva”, si, la carne dal momento che precede la quaresima, ma lo fa soltanto a partire dall’XI-XII sec. in Italia, quando la Chiesa riesce a sovrapporre le proprie alle costumanze pagane di cui di cui fino a quel momento ha dovuto farsi interprete e traduttrice.

L’idea iniziale è data dall’etimologia originaria fornita dal passo citato, ovvero Carnevale da Carrum Navalis, con riferimento a tutta la vasta mitologia che utilizza la nave e il carro come simboli di morte, dall’evidente funzione di indicare il trasporto delle anime dei morti nell’aldilà. In particolare, il viaggio per acqua è raccontato nei miti antichi d’origine disparata, ma ancora oggi l’idea persiste nei resoconti degli anziani pescatori rimasti in qualche lago del nord Italia, per i quali, come ha notato il Lanternari, è usuale l’attinenza fra “l’altra sponda” e l’aldilà. Il viaggio carnevalesco di tradizione iconografica e letteraria rinascimentale, ma di dimostrata origine medievale, della nave dei folli, per esempio, è di fatto un viaggio di morti: folle deriva da follia, mantice, dunque tutto ciò che pieno di vento, vacuo. Matto “dal tardo latino matus, ebbro, affine al greco màte, cosa vana, vuota, al sicano mattabus, mogio, al provenzale mat, triste, abbattuto, al mat francese...al catalano mat...allo spagnolo - portoghese mate, al rumeno ametì, stordire.”. Nel gioco delle etimologie il richiamo al mondo dei morti è ,nei termini che designano la follia, come nella parola Carnevale, evidente. Ma l’etimologia in sè, come nota lo stesso Saba Sardi, non ha a che fare con l’archeologia, quanto piuttosto con la poesia. Benchè proprio per questo essa sia testimone di qualche verità nascosta, ci pare però un limite fidarsi “isidorianamente” dell’etimo per ricamarvi magari barocche congetture: il nome accenna piuttosto ad una indicativa traccia, una possibile via da seguire, ma non è da sola sufficiente per una esauriente interpretazione del fenomeno che il nome rappresenta. Nel nostro caso, l’etimologia di Carnevale proposta converge l’attenzione sul modello rituale fondamentale del Carnevale: il passaggio, nel quale, con le dinamica degli spazi liminali, si ravvisano le componenti socio-simboliche istituzionali del rovesciamento. Per definire il Carnevale sotto questo punto di vista occorre sondare le sue origini storiche e la sua collocazione temporale: esso è una festa, erede dei saturnali e dei lupercali romani, connessa, come si comprede anche dalla più nota etimologia (Carnevale da carnem levare), al periodo della Quaresima. Al calendario pasquale e al significato stesso della festività di Pasqua il Carnevale è, come vedremo, intimamente connesso nei secoli cristiani del Medioevo. Si tratta, come fa notare V. Turner, di una festa mobile che “fa parte di un calendario cosmologico separato dal tempo storico ordinario”. Ogni festa, in effetti, si pone con la categoria del tempo in fondamentale rapporto. Il carnevale, “sorta di liberazione temporanea della verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici...era l’autentica festa del Tempo del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento.”Il carnevale medievale è come tutte quelle feste che “ in tutte le fasi di evoluzione storica sono state legate a periodi di crisi, di svolta, nella vita della natura, della società e dell’uomo. Il morire, il rinascere, l’avvicendarsi e il rinnovarsi sono sempre stati elementi dominanti nella percezione festosa del mondo”.

LO STRAORDINARIO SUCCESSO DI EMMA DANTE

di Elisa Ferrari

Periferia di Milano, alle porte del Gratosoglio, trent’anni fa qui il Salone ospitò i grandi del teatro, da Kantor a Grotowskij. Anni in cui la gente si riversava nelle periferie per vedere il Teatro, con la T maiuscola, anni in cui si scavalcavano i cancelli per avere un posto in platea.

Nel corso di questa stagione quell’atmosfera di ‘festa’ e, in un certo senso, di ‘comunità’ si è ricreata in occasione della messinscena de Il festino di Emma Dante. Lunghe file al botteghino, liste d’attesa, posti aggiunti sottoforma di cuscini che invadono il proscenio, tutto esaurito per tutte le sere di spettacolo.

Con Il festino si è chiusa al CRT la rassegna dedicata agli spettacoli di Emma Dante. Mishelle di Sant’Oliva, Carnezzeria, La Scimia, Mpalermu, Vita Mia, questi i titoli degli spettacoli che dal 20 Novembre al 6 dicembre hanno fatto registrare il tutto esaurito al botteghino del Teatro dell’Arte. Il festino, monologo tragico-brillante interpretato da un preparatissimo Gaetano Bruno e che potrebbe essere definito ‘piccolo dramma festaiolo per uomo e scope’, parla di una storia semplice quanto profonda. Un padre che da anni se n’è andato e che vuole tornare per prendersi la pensione d’invalidità del figlio. Due fratelli, identici, gemelli, Paride e Jacopo, “uno più aggrippato dell’altro, uno cretino e l’altro handicappato”, vivono in simbiosi. Uno mangia e l’altro si sazia, uno dorme e l’altro sogna. Fanno scherzi scambiandosi i nomi riuscendo ad imbrogliare tutti, tranne la mamma che punisce solo Paride, costringendolo a chiudersi nello sgabuzzino, al buio, in compagnia delle scope. Paride vuole insegnare a Jacopo a camminare “perché tutti i cristiani stanno in piedi”, e allora se lo prende in braccio e gli insegna il ritmo, sinistradestrasinistradestra…poi Jacopo cade, e muore. Allora Paride si crea un mondo tutto suo, nello sgabuzzino, con le scope. E’ il giorno del suo trentanovesimo compleanno, lucine azzurre a intermittenza illuminano una sorta di altare un po’ pacchiano: da un enorme pacco rosso che fa da tabernacolo Paride estrae sei scope colorate. Tutto è pronto, il festino può iniziare. Paride dopo una danza sfrenata con Sammi, Guendalina e le altre è pronto per la torta al ketchup, ma prima la magia…talitakum…e le scope stanno in piedi da sole…

Con questo spettacolo la Dante non perde l’interesse per i drammi familiari, e forse si avvicina in maniera più intima alla drammaticità dei fatti. La regista ricrea perfettamente quell’oblio di solitudine e pazzia in cui Paride si rifugia, permettendo al pubblico di entrare in punta di piedi in quello sgabuzzino buio per ammirare Paride che con un talitakum fa la magia delle scope. La gente in sala fatica a uscire da quello sgabuzzino, vorrebbe continuare la festa, e lo dimostra con applausi infiniti.

Applausi che hanno accompagnato anche tutti gli altri spettacoli ai quali il pubblico ha assistito con grande interesse ed entusiasmo, e i dati relativi all’affluenza lo dimostrano: 898 presenze per Carnezzeria, 590 per LaScimia, 934 per mPalermu, 360 per Mishelle e 483 per Vita Mia. Un totale di 3265 presenze in poco più di quindici giorni. Un traguardo importante per il CRT che si impone sempre più come punto di riferimento essenziale nella cultura teatrale.

COFANI FUNEBRI E LA MORTE SPETTACOLO

di Elisa Ferrari

La morte è ovunque. Siamo inondati da immagini di corpi esanimi: telegiornali, programmi di attualità, cartelloni, manifesti. Figure di cadaveri contorti, abbandonati, putrefatti, ammucchiati, si depositano sul cristallino e vengono rielaborate dai circuiti neuronali.

Nessuna reazione, nessuno sconvolgimento. La morte non ci appartiene più, non è più nostra, non è più parte della vita, è solo morte. Bisogna mostrarla, sempre più dettagliatamente, per poterne prendere le distanze. La morte è diventata un tabù, qualcosa da censurare, allontanare, dimenticare, fare finta che non esista. I morti in tv sono lontani da noi, la morte non ci può colpire, la morte mediatica non puzza, non fa male, incuriosisce, ma non si comprende, perché diventata inumana. Notizia al telegiornale: “Alcuni ragazzi riprendono con il telefonino una loro compagna agonizzante sul marciapiede.” Nessuno agisce, la mente è già oltre, su internet, su youtube, dove il filmato potrà essere caricato, cliccato, visto, rivisto.

Converso telefonicamente con Gianfelice Facchetti, autore/attore de Nel numero dei +, gli espongo queste mie divagazioni mentali…”E’ una mascherata doppia”, mi dice, “siamo vittime di un potere repressivo che costringe a trovare vie alternative…Ma se sai dov’è il nemico, sai anche il linguaggio per difenderti”. Dalla conversazione densa e accanita emerge che c’è nella società di oggi il desiderio incessante di sostituire il privato con il pubblico, di far diventare tutto evento, il potere incita ad esibirsi, ci troviamo in una società della rappresentazione. Nel numero dei + si ispira in particolare a due fatti riguardanti appunto il tema della morte: a Vancouver nella British Columbia è stato costruito un palazzo a nove piani tutto dedicato alla celebrazione di ‘funerali a tema’, ambientazioni esotiche, piuttosto che futuristiche. Mortyland per farla breve.

Su cofanifunebri.com, invece, la morte viene offerta come oggetto sessuale, di piacere: donne seminude o semivestite posano in atteggiamenti pseudo-provocanti appoggiandosi languide a diversi modelli di bare. Un calendario, ecco. Allora uno – il futuro morto o un familiare?- ordinerà la bara di giugno perché Clarissa è così viva che sembra quasi di ordinare un ninnolo su e-bay.

Meglio un’allusione al sesso della morte.

E allora il gioco sta tutto lì: censurare la morte e aspirare ad una giovinezza eterna. In un tempo che nega realtà alla vecchiaia e alla malattia il vibromassaggiatore e il botulino diventano il solo ed unico mezzo per cercare di allungare il più possibile la farsa.

Poi chiedo a Facchetti cosa ne pensa dei ragazzi che fotografano la compagna a terra con il telefonino: “E’ la percezione del videogioco: finita la partita il gioco inizia di nuovo, c’è un analfabetismo emotivo e sentimentale, giocano sul limite perché non c’è limite”.

Ma di chi è il compito di insegnare quale sia il limite? Anche perché forse non è più qualcosa che riguarda solo ed esclusivamente gli adolescenti: la spettacolarità della morte diventa evento espositivo-voyeuristico nelle mostre-autopsia dell’artista tedesco Gunter von Hagens, meglio conosciuto come dottor Morte, anatomopatologo cinquantottenne creatore della plastination. Il processo, che costituisce una vera e propria ‘mummi-plastificazione’ delle membra umane, permette di rendere cadaveri umani perfettamente rigidi ed inodori.

Si prende un corpo, meglio se già morto, ancor meglio se di una donna incinta, o di un uomo con deformazioni fisiche, lo si immerge in una soluzione di acetone a -25 per far sì che dreni i liquidi, sostituiti in seguito da iniezioni di plastica fluida, che solidificherà all’esposizione di raggi ultravioletti. Ecco fatto, il soggetto è servito, la materia pronta per essere scolpita, manipolata, sacrificata, o dissacrata. A questo punto il dottor morte darà sfogo al proprio estro artistico, agendo direttamente sulle carni, se tali ancora si possono chiamare. Così dottor Morte sega braccia e gambe e le appende a fili di nylon dando ‘vita’ ad un grottesco burattino dinoccolato e fluttuante, sventra il pancione di una donna incinta di cinque mesi ponendo in evidenza il feto, anch’esso plastinato. Forse il processo di plastinazione è stato creato proprio per questo, per rendere i corpi meno umani, per renderli più materiali, meri oggetti, manichini. Per avere forse un coinvolgimento meno diretto, meno intimo. Del resto ora la carne in buona parte è diventata plastica, materia inorganica, niente decomposizione, niente liquidi, odori, umori. Sul sito di Hagens si legge Body Worlds, the original exibition of real human bodies. Anche se proprio real non sono. Quest’uomo è un mostro? Di certo non un assassino, lui i corpi li prende negli obitori, è tutto legale, sono state firmate delle dichiarazioni prima del decesso.

Morale o immorale?

Si potrebbe persino pensare che, nell’ottica di una sfida alla morte, fenomeno di moda nella società contemporanea, l’attività del dottor Morte si inserisca perfettamente nella corsa verso l’immortalità.

Il dato certo è che le mostre di Hagens fanno il giro del mondo e registrano il tutto esaurito.

Cosa spinge le persone ad andare a vedere una mostra del genere? Curiosità, morbosità? Ancora una volta la morte viene commercializzata, divulgata… leggera, fresca, facile.

Ma una volta non c’era la morte nera? Ora no, si colgono altri colori: il viola - che fa morto, ma che va pure tanto di moda!- ci rimanda al Premio Fior Viola con il quale si premia il ‘miglior trattamento al morto ed alla famiglia’, e poi nuovi colori per i tessuti che arrederanno la camera mortuaria, nuove nuances, come l’ultima tonalità color champagne…questione di tanatoestetica.

RITRATTO DELL'ARTISTA DA SALTIMBANCO

La maschera alla luce di Starobinski

di Alessio Ramerino

Il teatro, come qualsiasi altra arte, è un mondo in cui ricorrono simbologie ben identificabili, in grado di rapportarsi al gradiente cronologico-artistico con modalità differente, quasi siano maschere paradossalmente capaci di agire ruoli diversi; una di queste maschere è il saltimbanco. Topos archetipo dell’arte rappresentativa, il saltimbanco è entrato nell’immaginario collettivo grazie a una capacità d’attrazione endemica e, come sempre avviene, la sublimazione dei suoi differenti significati è stata compito degli artisti: pittori, scrittori, poeti. Se, nascosta dietro la funzione prima del divertimento, sul trucco clownesco appaiono fascino, gioia, malinconia, tristezza e, talvolta, anche inquietudine, ciò lo si deve a un sostrato di rielaborazioni artistiche che hanno importunato come un’intermittenza costante la nostra crescita culturale.

L’itinerario che ha portato alla “sostituzione degli Dei ad opera dei pagliacci” è stato superbamente tracciato da Jean Starobinski nel suo Ritratto dell’artista da saltimbanco, in cui la penna del critico ginevrino sottolinea le tappe artistiche di un percorso letterario-estetico apparentemente tortuoso e eterogeneo, che superando l’istanza primitivistica di stampo romantico giungono ad enucleare significati più profondi e stratificatesi nella nostra ricezione di lettori e spettatori. Dal fool shakespeariano al Novecento l’immaginario artistico ha più volte rielaborato il significato della terribile maschera dell’artista circense, dell’acrobata e, più in generale, del clown, che si è affrancato dalla sua primigenia dimensione crepuscolare e legata al confine con il mondo dei morti ed è divenuto ironico ribaltatore della realtà corporea, personaggio salvifico e tragica figura di passaggio.

L’exploit dell’interesse verso gli artisti circensi si ritrova nell’Ottocento, evo permeato dall’ipocrisia borghese e dalle crudeli maschere che essa impone, e nella prima metà del secolo breve: a partire dai racconti dei primi cronisti e poeti – Gautier, Banville – che interpretavano fiere e circhi come colorate terre di mezzo tra la grigia realtà borghese e un Oriente favolistico, il mito del clown giunge a permeare i supremi esempi della scrittura di Baudlaire e della pittura di Picasso; il saltimbanco diviene figura eterea in bilico tra l’abisso e il cielo, la vita e la morte, in grado di far sognare il suo pubblico e di divenire alter ego liberatorio per gli artisti che a lui dedicano il loro interesse poetico. In quanto abitatori di confine, l’acrobata e il clown stessi sono soffrono di una forte dicotomia interna: il momento poetico del loro impegno nell’esercizio fisico li rende figure poetiche e eteree, mentre la loro normale vita terrena è resa greve dalla pesantezza del reale, della carne e di un corpo volgare; pur consapevole di una tale doppia natura essa sfugge alla maschera, poiché sublimata solo nella trasfigurazione della poesia ovvero nello “sforzo mentale dello spettatore” (p. 87).

Il moltiplicarsi costante dell’apparenza clownesca negli esempi citati da Starobinski, su tutti Baudelaire – la cui maschera da dandy palesa un’incredibile prossimità – e Piccasso, ma anche Flaubert, Verlaine, Lautrec, Seurat, Klee, e il suo apparire continuo in letteratura e letteratura drammatica, Poe, Hugo – e quindi Verdi – Böll è tuttavia da interpretare in relazione a “una società organicamente strutturata” (p. 154) come quella borghese e post-borghese, all’interno della quale le molteplici funzioni rivestite dal clown si oggettivizzano in interferenza derisoria del mito, del concetto di eroismo, dei modelli che la stessa società impone come vincenti. Ciò è cifra motivante il permanere del significato portato dal clown all’interno di arte e cultura: l’inquieta sensazione creata da un ruolo molteplice e multisignificante. “L’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento di inquietudine e di vita” (p. 150), tale è la funzione che il clown, come latore di un dubbio inquietante, rende e renderà sempre all’arte.

I CLOWN E LA CITTA'

di Alessandro Serena
Sono due le immagini che vengono in mente pensando al Festival del Clown di Milano, creato da Maurizio Accattato. Si tratta dell’apertura e della chiusura de I Clown, uno dei capolavori di Federico Fellini. Il regista di Rimini è l’artista italiano che in maggior misura ha legato il proprio immaginario a quello del circo, sino a ri-costituire quest’ultimo. I Clown inizia con la scena di Federico bambino, che si affaccia alla finestra un mattino grigio e (sorpresa!) al posto di un brullo piazzale desolato, scopre un mondo di colori, musica, umanità: nottetempo in città è arrivato un circo! È un po’ quello che succede con il Festival di Accattato. In una metropoli, spesso impegnata in corse frenetiche, alzarsi una mattina e scoprire che sono arrivati i clown è una bella sensazione. Per altro si tratta di clown che più che di far ridere si propongono di far riflettere, si adoperano nel sociale, cercano di far capire qualche loro istanza, invadono la città tentando di cambiarne alcune delle abitudini, si propongono in qualche modo come clown rivoluzionari. Ma l’immagine che chiude I Clown di Fellini è diversa e più malinconica. Il clown Zanzara (il cui figlio Fumagalli, per altro, è oggi fra i maggiori artisti della comicità) spiega al regista: “Lo sa signor Fellini, una volta facevo un numero con un mio compagno che si chiamava Fru Fru. Si faceva finta che era morto. Io entravo in scena e dicevo: dov’è Fru Fru? Ma non lo sai, mi diceva il direttore, è morto! Ma come è morto, dicevo io! Mi deve restituire le dieci salsicce e la candela che gli ho prestato l’anno scorso! Ebbene è morto, mi diceva il direttore. Dove posso trovarlo, dico io? Ma cretino, ti dico che è morto! Allora io che non mi davo per vinto, mi mettevo a chiamarlo: Fru Fru! Fru Fru! Niente. Non rispondeva. Che sia morto davvero, dicevo io? E se è morto come faccio a trovarlo? Uno non può mica sparire così. Da qualche parte deve stare. Fru Fru! Finché mi viene un’idea. Lo chiamerò con la tromba come quando lavorava con me. E così comincio a chiamarlo con la tromba. Suono le prime note… sto a sentire… niente. Riprovo. Era una canzone molto bella che faceva piangere. Faceva così…” e partiva uno struggente assolo di tromba. Il clown muore. E non può bastare un Festival per farlo risorgere o per scovarlo nascosto da qualche parte, come sperava Zanzara. Il clown è una figura seria, padroneggia delle tecniche antiche che però innova. Per far questo deve provare, allenarsi, non lasciare niente all’improvvisazione. Deve lavarsi i denti tutti i giorni. Il lavoro del clown e quello sul clown deve durare sempre, a volte tutta una vita. Altrimenti il rischio è quello di far riferimento ad un’altra figura simbolica che arriva dall’altro grande maestro del cinema, Charlie Chaplin che chiude il suo bellissimo Circus con Charlot seduto triste al centro della malinconica traccia di un cerchio di segatura. Uno dei luoghi comuni più diffusi del Novecento: il circo parte e lascia solo un ricordo. Il clown parte, ma deve lasciare qualcosa più.

Foglio critico prodotto dai partecipanti al laboratorio di critica teatrale presso il Crt su I GEMELLI di Giorgio Marini

di Valentina Ciardi

Durante l’incontro di presentazione che ha preceduto la prima serata de I Gemelli, tenutosi Lunedì 25 Febbraio presso il teatro CRT, il regista Giorgio Marini ha sottolineato con questo nuovo lavoro l’interesse nei confronti del testo ad opera dell’autrice Fleur Jaeggy. Fedele ad ogni parola, ad ogni singola punteggiatura del racconto – ha dichiarato Marini – il regista ha voluto giocare col linguaggio sviluppando una sorta di partitura musicale nella quale potesse trovare espressione il tema del doppio intorno al quale si sviluppa l’intera rappresentazione.

I gemelli sembrano indissolubilmente legati a partire dall’espressione verbale, nel loro interrompere le frasi a metà affinché l’uno termini quelle dell’altro o nel sovrapporsi di battute pronunciate all’unisono con toni che rievocano la prosodia cantilenante di certe filastrocche. Tuttavia questo intento si perde, a tratti, in una partitura verbale contemporanea, sincopata, in cui il discorso, faticando nel trovare una propria scansione ritmica e di senso, perde di vigore e di poesia, spegnendosi in una sorta di lamento interrotto, rotto.

Anche la scelta delle due interpreti femminili per i gemelli richiama il tema dell’ambiguità, della duplicità attraverso la forma del travestimento, ma il difficile tema dell’ambivalenza e del doppio, intimamente appartenente alla natura umana, fatica a trovare uno sviluppo coerente.

La prima associazione al termine "doppio" è l'altro Io dell'Io, il perturbante come lo chiamava Freud, quell'aspetto di noi che ci sconvolge perché corrisponde alla nostra oggettivazione, perché in lui vediamo noi stessi fuori di noi e perché nella percezione del "doppio" cominciamo a pensare noi stessi.
Il doppio è tale come ombra o come sosia, gemello oppure no. In ogni caso rappresenta un modo per cominciare a riflettere su se stessi. La rappresentazione di Marini non sempre permette allo spettatore di partecipare dialetticamente nella ricostruzione del racconto, negando pertanto la possibilità di innescare il meccanismo di riconoscimento e dunque di riflessione critica.

L’osmosi parossistica di due vite incapaci di soggettivarsi fino alla inevitabile perversa conclusione di un rapporto incestuoso solamente accennato, si perde forse nel difficile adattamento del testo di Fleur Jaeggy per il teatro. La sensazione è quella che siano state sfiorate diverse tematiche senza però riuscire a svilupparne nessuna. In fondo anche il centro dell’azione della diade sembra perdersi continuamente nella presenza di un terzo interlocutore che rischia di impedire con la propria presenza l’esplicitarsi di questo tema.

L’uso delle luci di taglio, nette, con l’alternarsi di un’atmosfera indistinta, nella semioscurità hanno ricreato un luogo privo di qualsiasi indicazione temporale e spaziale, connotato dalla sola presenza di un manto di neve bianca a ricoprire l’intero palcoscenico e due alberi di vago sapore beckettiano. La messinscena è risultata dunque di grande suggestione anche se compiacente ad un certo teatro autoreferenziale in cui si fatica a scorgere l’urgenza dell’espressione artistica.