
di Alessio Ramerino
Il teatro, come qualsiasi altra arte, è un mondo in cui ricorrono simbologie ben identificabili, in grado di rapportarsi al gradiente cronologico-artistico con modalità differente, quasi siano maschere paradossalmente capaci di agire ruoli diversi; una di queste maschere è il saltimbanco. Topos archetipo dell’arte rappresentativa, il saltimbanco è entrato nell’immaginario collettivo grazie a una capacità d’attrazione endemica e, come sempre avviene, la sublimazione dei suoi differenti significati è stata compito degli artisti: pittori, scrittori, poeti. Se, nascosta dietro la funzione prima del divertimento, sul trucco clownesco appaiono fascino, gioia, malinconia, tristezza e, talvolta, anche inquietudine, ciò lo si deve a un sostrato di rielaborazioni artistiche che hanno importunato come un’intermittenza costante la nostra crescita culturale.
L’itinerario che ha portato alla “sostituzione degli Dei ad opera dei pagliacci” è stato superbamente tracciato da Jean Starobinski nel suo Ritratto dell’artista da saltimbanco, in cui la penna del critico ginevrino sottolinea le tappe artistiche di un percorso letterario-estetico apparentemente tortuoso e eterogeneo, che superando l’istanza primitivistica di stampo romantico giungono ad enucleare significati più profondi e stratificatesi nella nostra ricezione di lettori e spettatori. Dal fool shakespeariano al Novecento l’immaginario artistico ha più volte rielaborato il significato della terribile maschera dell’artista circense, dell’acrobata e, più in generale, del clown, che si è affrancato dalla sua primigenia dimensione crepuscolare e legata al confine con il mondo dei morti ed è divenuto ironico ribaltatore della realtà corporea, personaggio salvifico e tragica figura di passaggio.
L’exploit dell’interesse verso gli artisti circensi si ritrova nell’Ottocento, evo permeato dall’ipocrisia borghese e dalle crudeli maschere che essa impone, e nella prima metà del secolo breve: a partire dai racconti dei primi cronisti e poeti – Gautier, Banville – che interpretavano fiere e circhi come colorate terre di mezzo tra la grigia realtà borghese e un Oriente favolistico, il mito del clown giunge a permeare i supremi esempi della scrittura di Baudlaire e della pittura di Picasso; il saltimbanco diviene figura eterea in bilico tra l’abisso e il cielo, la vita e la morte, in grado di far sognare il suo pubblico e di divenire alter ego liberatorio per gli artisti che a lui dedicano il loro interesse poetico. In quanto abitatori di confine, l’acrobata e il clown stessi sono soffrono di una forte dicotomia interna: il momento poetico del loro impegno nell’esercizio fisico li rende figure poetiche e eteree, mentre la loro normale vita terrena è resa greve dalla pesantezza del reale, della carne e di un corpo volgare; pur consapevole di una tale doppia natura essa sfugge alla maschera, poiché sublimata solo nella trasfigurazione della poesia ovvero nello “sforzo mentale dello spettatore” (p. 87).
Il moltiplicarsi costante dell’apparenza clownesca negli esempi citati da Starobinski, su tutti Baudelaire – la cui maschera da dandy palesa un’incredibile prossimità – e Piccasso, ma anche Flaubert, Verlaine, Lautrec, Seurat, Klee, e il suo apparire continuo in letteratura e letteratura drammatica, Poe, Hugo – e quindi Verdi – Böll è tuttavia da interpretare in relazione a “una società organicamente strutturata” (p. 154) come quella borghese e post-borghese, all’interno della quale le molteplici funzioni rivestite dal clown si oggettivizzano in interferenza derisoria del mito, del concetto di eroismo, dei modelli che la stessa società impone come vincenti. Ciò è cifra motivante il permanere del significato portato dal clown all’interno di arte e cultura: l’inquieta sensazione creata da un ruolo molteplice e multisignificante. “L’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento di inquietudine e di vita” (p. 150), tale è la funzione che il clown, come latore di un dubbio inquietante, rende e renderà sempre all’arte.
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