
Durante l’incontro di presentazione che ha preceduto la prima serata de I Gemelli, tenutosi Lunedì 25 Febbraio presso il teatro CRT, il regista Giorgio Marini ha sottolineato con questo nuovo lavoro l’interesse nei confronti del testo ad opera dell’autrice Fleur Jaeggy. Fedele ad ogni parola, ad ogni singola punteggiatura del racconto – ha dichiarato Marini – il regista ha voluto giocare col linguaggio sviluppando una sorta di partitura musicale nella quale potesse trovare espressione il tema del doppio intorno al quale si sviluppa l’intera rappresentazione.
I gemelli sembrano indissolubilmente legati a partire dall’espressione verbale, nel loro interrompere le frasi a metà affinché l’uno termini quelle dell’altro o nel sovrapporsi di battute pronunciate all’unisono con toni che rievocano la prosodia cantilenante di certe filastrocche. Tuttavia questo intento si perde, a tratti, in una partitura verbale contemporanea, sincopata, in cui il discorso, faticando nel trovare una propria scansione ritmica e di senso, perde di vigore e di poesia, spegnendosi in una sorta di lamento interrotto, rotto.
Anche la scelta delle due interpreti femminili per i gemelli richiama il tema dell’ambiguità, della duplicità attraverso la forma del travestimento, ma il difficile tema dell’ambivalenza e del doppio, intimamente appartenente alla natura umana, fatica a trovare uno sviluppo coerente.
La prima associazione al termine "doppio" è l'altro Io dell'Io, il perturbante come lo chiamava Freud, quell'aspetto di noi che ci sconvolge perché corrisponde alla nostra oggettivazione, perché in lui vediamo noi stessi fuori di noi e perché nella percezione del "doppio" cominciamo a pensare noi stessi.
Il doppio è tale come ombra o come sosia, gemello oppure no. In ogni caso rappresenta un modo per cominciare a riflettere su se stessi. La rappresentazione di Marini non sempre permette allo spettatore di partecipare dialetticamente nella ricostruzione del racconto, negando pertanto la possibilità di innescare il meccanismo di riconoscimento e dunque di riflessione critica.
L’osmosi parossistica di due vite incapaci di soggettivarsi fino alla inevitabile perversa conclusione di un rapporto incestuoso solamente accennato, si perde forse nel difficile adattamento del testo di Fleur Jaeggy per il teatro. La sensazione è quella che siano state sfiorate diverse tematiche senza però riuscire a svilupparne nessuna. In fondo anche il centro dell’azione della diade sembra perdersi continuamente nella presenza di un terzo interlocutore che rischia di impedire con la propria presenza l’esplicitarsi di questo tema.
L’uso delle luci di taglio, nette, con l’alternarsi di un’atmosfera indistinta, nella semioscurità hanno ricreato un luogo privo di qualsiasi indicazione temporale e spaziale, connotato dalla sola presenza di un manto di neve bianca a ricoprire l’intero palcoscenico e due alberi di vago sapore beckettiano. La messinscena è risultata dunque di grande suggestione anche se compiacente ad un certo teatro autoreferenziale in cui si fatica a scorgere l’urgenza dell’espressione artistica.
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