martedì 8 gennaio 2008

Il linguaggio della provocazione tra cinema e teatro, a colloquio con Sergio Grmek Germani

di Roberto Caielli

L'etimologia di osceno e di provocazione esplora territori di confine tra pubblico e scena, che hanno marcato la storia recente del teatro, ne hanno sottolineato limiti e potenzialità. La provocazione e l'osceno sono una soglia che l'artista desidera varcare e sperimentare, obbedendo a un principio a volte istintivo a volte filosofico a volte soltanto stupido, a volte per amore dello scandalo che é pietra sublime nell'arte più straordinaria (Baudelaire docet), pronto però a trasformarsi nel pericoloso boomerang della banalità e della desolazione, quando non supportata d'adeguato genio. Cenalora si occupa in questo spazio-tempo d'inizio anno di un argomento delicato e necessario, radicato nell'antropologia rituale, figlia degli sconvolgenti resoconti sui cannibali del Pacifico o degli orrori dei mangiatori di cadaveri tribali, e radicato nel teatro, che ha assunto fin dalle origini il linguaggio della provocazione, per esprimere qualcosa di profondamente vicino all'animo ancestrale di ciascuno. Nel novecentro, il cinema con la sua profonda mediazione del vincolo del montaggio e dello schermo si é appropriato di questo linguaggio, trasformandolo in oggetto emotivo in alcuni casi assai potente, paradossalmente più potente della scena viva. Il famoso critico cinematografico Sergio Grmek Germani, direttore del festival triestino dei Mille Occhi, s'é prestato a un commento d'assoluta competenza rispetto al rapporto scena-immagine cinematografica, forte di una mai nascosta visione aperta e coraggiosa dei mezzi d'espressione e comunicazione. Peraltro, la recente edizione del Festival ha presentato un programma davvero eccezionale rispetto a questi temi. "Difficile decidere quale dei due mezzi comporti, per lo spettatore il maggior grado di fisicità - dice Germani - paradossalmente il corpo teatrale, vivo e presente, si mette più facilmente tra parentesi sulla scena. Questo é impossibile al cinema, dove il corpo non può o non vuole sottrarsi allo sguardo necessario della macchina da presa, dunque il cinema rappresenta oggi l'arte dei corpi reali. Nella nostra rassegna abbiamo tentato un percorso parallelo, alternando al film momenti in cui il corpo vivo é presente. Ma il cinema, nella nostra esperienza, consente al corpo vivo e alle sue emozioni di essere più dettagliatamente indagato e di perdurare nel tempo. Memorabile é stata, per esempio, la proiezione dell'incredibile film - documentario girato dallo scultore e videoartista giapponese S. Tajiri e da Ole Ege con la pornostar danese Bodil Joensen nel 1970 "A summer day" , un classico della pornografia europea e da noi presentato in prima visione italiana al Festival 2007. Un'immagine ossessivamente provocante, nella sua cruda tematica. Il pubblico, al termine della visione, é stato fermo nella sala per oltre cinque minuti, sottolineando col silenzio e con l'immobilità la forte emozione imbarazzante che persisteva". Il corpo vivo a teatro lo abbiamo visto invece un paio d'anni fa al Crt durante la performance della coreografa greca Apostolia Papadamaki. Chi era presente ha testimoniato della forte emozione presente in sala, di fronte al corpo nudo e offerto alla platea senza mediazioni, prepotentemente 'se stesso'. Sospendiamo volentieri queste riflessioni, che riprenderemo costantemente, certi che la tematica dell'osceno rappresenti una chiave di volta interpretativa del teatro attuale e delle sue involuzioni-evoluzioni future, e del suo forte e difficile ma obbligato rapporto con il mezzo cinematografico.

Roberto Caielli - Direttore di Cenalora

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