martedì 8 gennaio 2008

NASCITA (E MORTE) DELL'OSCENO


Dall'azionismo viennese alla violenza di grammatica
di Diego Vincenti

Violenza (e oscenità) drammaturgica. Carne e parola (sovra)esposte, veicoli da maneggiare con delicatezza, fra strumento e mera provocazione. Ma se la parola è stata quasi sdoganata grazie alle anguste dimensioni del mezzo (si pensi alla differenza con le trasmissioni televisive), una lettura strettamente fisico/estetica si apre su reazioni complesse e diverse. Forse solo l’Azionismo Viennese diede a queste due parole la forza d’essere manifesto programmatico, la possibilità nella performance di sottrarsi alla bassezza del gesto, alla gratuità poietica (non teorica). Confini labili quelli in cui si mossero Hermann Nitsch e compagnia, nella placida Vienna fra happening e body art, fluxus e i nascenti atti performativi. All’epoca (siamo nei Sessanta), lo spostare il centro strutturale e formale della rappresentazione verso il corpo, divenne critica estetico-politica a una società dei consumi già ben avviata, colpo basso alla mentalità comune e piccolo borghese con cui si convive(va). Il gioco era urlato, senza regole, bisognava puntare pesante. E la scelta del Wiener Aktionismus fu di sporcarsi (letteralmente…) le mani. Automutilazioni, sacrifici animali, secrezioni corporali, sesso: chi s’aggira per il Mumok della capitale austriaca, ha la possibilità di vedere come tutto fu rimesso in scena attraverso il tutto. In confronto, il passeggiare nel 1968 di Valie Export con il suo amico Peter Weibel al guinzaglio, appare quasi una goliardata (ed è indicativo come fu sperimentata la stessa cosa a Bologna nel 2003 nell’indifferenza cittadina). L’inaccettabilità comune della scelta artistica è in sé silenziosa vittoria di una “drammaturgia” lentamente istituzionalizzatasi nella follia. Dopo la giovanissima morte “via finestra” di Rudolf Schwarzkogler, le apparizioni azioniste nel neonato OutOff intorno al 1976 furono da una parte la fagocitazione della stessa provocazione da parte del provocato – divenendo il gesto scenico parte di un circuito elitario ed intellettuale (nonostante fughe, svenimenti e notti insonni: Nitsch faceva colare budella d’agnello sui genitali della modella e amenità simili) –, dall’altra segno di una deriva mistico/idolatrante che pur riguardando nello specifico i protagonisti del (non) movimento, sembrano segnare la via a studi che indaghino il limite (in)valicabile. Concetto tra l’altro alla base dello stesso azionismo, che aveva nella “prova di forza” (fisica e psicologica) l’Ultimo atto performativo nel quale provarsi. Un’eredità sommaria e difficile, che si rispecchia maggiormente nelle performance che in un teatro ancora molto legato al senso classico. Più una Yasmeen Godder che un Rodrigo Garcia, nonostante Matar para comer e i difficili rapporti con gli astici. Ma è una questione di quantità, non qualità.

Fisiologicamente elitario (e quindi intellettuale), il teatro soffre così la misera diffusione e spinge a una razionalizzazione della fruizione che mal si adegua alla reattività visiva del contatto epidermico. L’occhio è il veicolo di una vicinanza esasperata che confonde, faticosamente tenuta a distanza dalla ritualizzazione. Diversi (ma sempre pochi) i casi in cui il linguaggio si fa violentemente osceno, rara ormai la gratuità del gesto, anche quando la stampa lo presenta in questi termini. Ed è forse questo l’aspetto che è divenuto nel tempo più teatralmente peculiare: la violenza è ora grammatica, l’oscenità solo categoria di giudizio di chi guarda, a cui opinione pubblica e spettatori rimangono diversamente (in)differenti. Sensibile alla provocazione, la categoria di giudizio crolla miseramente nel gioco meta teatrale dell’azione/reazione, improvvisamente scivolando (in minoranza) verso connotati universali (kantiani) che in origine non le appartengono. E qui si torna all’Azionismo. Al pensiero dominante e piccolo-borghese. Ma in una città (e un Paese) che ancora chiude mostre e censura trasmissioni, è un discorso lungo e doloroso, da fare a mezza voce.

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