Il teatro si colloca in quel punto dove il deficit riguarda l’espressione corporea, la presenza, l’esperienza dell’altro, il dialogo, la relazione faccia a faccia, il contatto. Quanto si evoca la comunità virtuale, i sistemi in rete, si introducono elementi di agglomerazione, di stimoli e di segni che rispondono a bisogni reali, ma in cui la risposta è sprovvista di quelle componenti di corporeità, di imprinting individuale o di gruppo che noi riconosciamo al teatro.
Di fronte alla disperazione e alla solitudine, alla deriva del soggetto, in una società che garantisce una alluvione di stimoli e di segnali, ma poi lascia il soggetto diventare vittima di questa ridondanza di segni privi di affetti, di fronte a questo, dicevo, si generano delle controspinte. Una è quella della comunità virtuale – vale la pena osservare che l’espressione “comunità virtuale” è un evidente ossimoro – e l’altra è quella che ci riguarda come discorso sul teatro.
Di quale teatro stiamo parlando? A me pare che nella parabola di una o due generazioni ci siano state dentro le istituzioni, oscillazioni, adattamenti, riequilibri rispetto alle spinte del cambiamento. Parallelamente si è avuta anche una rinvigorita rigidità del sistema, il quale si e spesso illuso di offrire risposte significative ad esempio con le drammaturgie neo barocche alla Ronconi e la radicalizzazione inquietante della spettacolarità e a una erosione dei campi semantici capaci di esprimere un ethos. Si assiste così ad un drenaggio delle risorse, a un reinvestimento di queste risorse non in una pratica alternativa, ma in una pratica concorrenziale rispetto all’immaginario spettacolare quotidiano. In realtà, in questa evoluzione, c’è il vizio mimetico di ripetere nel teatro la spinta concorrenziale coi media. Mentre il problema è quello di recuperare il teatro come differenza e come divergenza rispetto alla spettacolarità diffusa e perversa.
Il grande blocco istituzionale ha avuto una evoluzione abbastanza inquietante dal punto di vista delle strutture politiche: controllo delle lobbies, apparati di potere, cortocircuito tra politica e cultura, possibilità di questi centri di potere, condizionare e orientare le formazioni nuove e quindi di attirare dentro al vortice istituzionale anche i gruppi marginali.
I gruppi marginali, le avanguardie, tutti quelli che hanno fatto o fanno le esperienze del cambiamento, che cosa hanno rivelato? Hanno rivelato sostanzialmente un peccato: hanno subito per così dire lo sguardo del basilisco, quell’incantamento che è l’espressione di un pensiero debole, dell’incapacità di opporsi alla cultura dominante, con un progetto realmente alternativo, diventando così subalterni alla logica del potere. La rilevanza del fatto estetico e del formalismo è, in definitiva, l’ultimo alibi del disimpegno, della rinuncia a fare sistema e a dotarsi di una strategia politica complessiva. La crisi.della sperimentazione mostra che nella microfisica del potere, di cui ogni gruppo si fa a suo modo portatore, ciò che conta non è essere, ma esserci. Esserci nel grande barnun delle istituzioni culturali, nel godimento profuso dei centri di iniziativa politica e amministrativa, in quella grande festa bandita che sono le notti bianche, le notti romane, i festivals estivi in cui si reitera in modo indecente la pratica del “panem et circenses”. Osceno è, etimologicamente, ciò che deve situarsi fuori dalla scena, al riparo di sguardi indiscreti. Ma oggi è la scena stessa che è diventata o-scena, senza più linee distintive tra pubblico e privato, tra discreto e indiscreto, tra pudico e impudico. L’epos della singolarità chiusa e autosufficiente è il luogo dove si trasferisce il silenzio del mondo, il delirio del desiderio, la soggettività imperante. Il trionfo dell’io genera un simulacro della scena, la sua autoreferenzialità. Non do una valutazione di ordine moralistico. Il potere ha frantumato tutto.
(tratto da Oltre il teatro del margine, in "Animazione sociale", testo raccolto da A. Pontremoli)
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