
foto www.sickgirl.it
Da un lato vi è una realtà che intende inforcare la maschera, dall’altro un teatro che sente come urgente la necessità di toglierla. Dalle spaghetti pin-up nel metrò, ai reality e second life: tendenze di teatralità diffusa.
Di Alessio Ramerino
Nel corso del secolo Decimonono il pubblico gremiva le platee non esclusivamente per godere di uno spettacolo lirico o di prosa: una caledoscopica molteplicità di esibizioni si avvicendavano sui palchi delle sale soprattutto minori. Spesso il medium teatrale era usato per esporre in maniera spettacolare le più recenti scoperte della scienza: due elettrodi che generavano una scarica visibile tra loro, esperimenti sulla luce, dimostrazioni di macchine tecnologiche innovative presentate dai loro inventori, ecc., ecc. In un’epoca precedente all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e, contemporaneamente, passiva di una celere rivoluzione industriale e tecnico-scientifica si avvertiva l’esigenza di comunicare alla gente, quanto più direttamente possibile, i risultati delle conquiste del progresso umano. Chiaramente, tali esibizioni poco avevano a che fare con lo sviluppo scientifico vero e proprio, tuttavia alla necessità di un allargamento dell’informazione era fuor di dubbio altresì sotteso un senso particolare per l’esibizione. Nel medesimo filone si inserisce altresì una teoria di spettacoli, al limite tra arte teatrale e arte circense, che presupponevano la rassegna, ad esempio, di gruppi di nani ovvero di gobbi agenti farse o azioni drammatiche.
Lo tsunami creato dallo sclerotizzata crescita di mass media ha privato il mezzo teatrale della funzione comunicativa indirizzata alle masse. Nondimeno, connaturato a certi aspetti dell’umana natura rimane l’attitudine all’ostentazione, anche se ora in essa non è sempre rintracciabile un fine comunicativo né un messaggio da veicolare. L’esempio lampante di tutto ciò è sotto i nostri occhi ogni giorno: reality – veri o creati su copione, ma comunque dotati di un certo grado di credibilità – in cui persone comuni si rivelano nella loro mediata normalità, ristoranti con cucine a vista, dove istrionici cuochi cucinano per la platea degli avventori, persone che vivono in vetrina sotto gli occhi del pubblico astante; senza contare poi le interazioni generate dalla creazione di alter ego virtuali nelle chat-line, in programmi come second life e in videogiochi quali The sims.
Una delle più recenti e esplicite occorrenze di una simile tendenza è da ritrovarsi nel recente spettacolo di lap dance – che avviene con rara ma rilevata cadenza – agito da una ragazza vestita da gatta nei vagoni della metro di Milano. La studentessa gattina dà vita al suo provocante show per poi passare tra passeggeri perturbati e divertiti con il classico bicchierino raccogli obolo. Ella fa parte di un gruppo di giovani donne raccoltesi attorno a una community virtuale, sempre aperta a nuove adepte, chiamata Sickgirls. Le spaghetti pin up (www.sickgirl.it), le cui componenti si definiscono moderne e italianissime pin up che mescolano la delicata sfrontatezza delle donne da copertina dell’America anni Cinquanta con una vena dissacrante in tutto contemporanea. Se la danza in metro si configura come l’esempio più esplicito della volontà provocatoria delle componenti il gruppo, in una breve presentazione versificata delle loro attività all’inizio si legge: “Erotismo teatrale con un pizzico di ironia!”. Un tale manifesto si esplicita in servizi fotografici, recensioni, articoli, racconti inediti e tutta un’altra serie di materiale in accordo con la linea editoriale del sito pubblicato sul web. Tuttavia, quello che a noi preme in questa sede è cercare di reperire una certa liceità dell’utilizzo del termine teatrale.
Innanzi tutto e da rilevare come privando un’esibizione di un messaggio da trasfondere essa diventi esibizione pura o, meglio, “esibizionismo”, sciolto dai vincoli propri del medium teatrale. Nel caso in esame, tuttavia, ci troviamo di fronte a una volontà provocatoria e quindi portatrice di significato. In più, nel particolare vi è anche la necessità comunicativa di esporsi davanti a un pubblico tangibile, mediando il proprio essere attraverso l’appartenenza a un gruppo, attraverso un codice espressivo di cui, a priori, sono state assegnate precise coordinate comportamentali.
Più volte abbiamo utilizzato l’aggettivo “mediato” in questo scritto, tuttavia, dato l’ambito teatrologico a cui le nostre riflessioni afferiscono, sarebbe più consono utilizzare il termine “maschera”. Cifra di qualsivoglia tipo di esibizione veicolante un messaggio, l’utilizzo di una maschera, sia essa reale o immaginaria, diviene sovente la chiave interpretativa del messaggio stesso, ponendosi rispetto ad esso in rapporto metaforico. Vieppiù, la maschera permette di assumere una sorta di identità altra immune dalle critiche personali, di sentirsi protetti qualora si voglia sciogliere i freni dell’inibizione, di rivestire un ruolo in tutto e per tutto teatrale e rappresentativo, di agire una parte anziché viverla.
Abbisogna ora condurre l’analisi relativa all’altra faccia della medaglia. Più volte in alcune mie ricerche di ambito spettacolistico contemporaneo mi sono trovato di fronte a poetiche teatrali tese a riportare sul palco la confessione non più del personaggio bensì dell’attore, unita all’esibizione del corpo nudo e di scioccanti particolari, compresi sudore e altri fluidi organici (Si veda a tale riguardo un articolo firmato da Renato Palazzi e apparso sul Il sole 24 ore del 5 marzo 2006, in cui il critico commenta le tendenze spettacolistiche giunte alla Biennale Teatro). Tale modalità rappresentativa pare tesa al volere rintracciare una nuova cifra ontologica dell’evento live, “dal vivo”. Naturaliter, tutto ciò che avviene su di un palcoscenico deve fare i conti con il tramite insito nel mezzo teatrale in senso comunicativo e, dunque, rinunciare a un più o meno rilevabile quid di realtà e assumere forzatamente le caratteristiche di trasmissione mediata.
In conclusione, da un lato vi è una realtà che intende inforcare la maschera, dall’altro un teatro che sente come urgente la necessità di toglierla. Impossibile stabilire, a meno che non lo si faccia con psicologia e antropologia da quattro soldi, se la provenienza delle tendenze rilevate sia da considerarsi figlia di un’inconscia riflessione parallela ovvero se si tratti di pura casualità; più certo parrebbe asserire che la ricerca di una verità sempre più reale da parte di alcune poetiche rappresentative sia una reazione all’invasione della realtà nell’ambito comunicazione di massa, realtà fittizia ma creata e recepita come autentica. A noi non spetta giudicare, il nostro compito è limitato all’osservare e al registrare tendenze come quelle sopra descritte, per ora prive della distanza critica necessaria a una loro categorizzazione.
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